I tic, i piccoli gesti del nostro quotidiano

«Posso fare un’ipotesi? Che i suoi tic – quei gesti che ogni giorno si trova a sopportare – siano in fondo un po’ magici.»

Così rispondo, talvolta, in seduta. Non per alleggerire, ma per restituire un senso a qualcosa che, spesso, pesa.

I tic sono gesti apotropaici – parola che deriva dal greco apotrépein, cioè “allontanare”. Sono riti silenziosi, piccole scaramanzie quotidiane. Gesti che ci illudono di poter tenere lontano il male. “Se faccio questo movimento, forse l’esame andrà bene.” “Se compio quel gesto, evito la febbre.” “Magari lei mi dirà di sì.”

È come pagare una tassa invisibile per ottenere qualcosa di desiderato. E il prezzo, appunto, è quel gesto. È una forma di magia, anche se non la chiamiamo così.

Ma in fondo, chi non pratica un po’ di magia nella vita di tutti i giorni?

Quando ci diciamo “buongiorno”, “buonasera”, “arrivederci”, sappiamo bene che quelle parole non cambieranno il corso degli eventi. Eppure non riusciamo a farne a meno. Per educazione, certo. Ma anche perché ci aggrappiamo – magari inconsciamente – alla speranza che quel piccolo rito porti bene.

C’era una commedia di Eduardo De Filippo che si intitolava Non è vero… ma ci credo. Ecco: i tic funzionano un po’ allo stesso modo. Sono riti, ma privati. Nessuno risponde a un tic con un altro tic. Si accettano così come sono, anche quando faticano a passare inosservati.

E sono tenaci, come tutte le forme dell’ossessione. Chi li vive lo sa: non si ignorano facilmente. Ma più ancora della loro funzione “magica”, quello che spesso mi colpisce è il senso di vergogna che li accompagna. Perché sì, i tic si notano. E chi li ha, se ne accorge. E se ne vergogna. E – paradossalmente – più se ne vergogna, più il tic si fa insistente.

In quei momenti, mi capita di chiedere: “Ha notato se ci sono situazioni più cariche d’ansia che aumentano i tic, rispetto ad altre che, invece, ci lasciano in pace?”

Uso apposta quel noi, quel ci. Perché nessuno è davvero escluso da queste dinamiche. I tic sono umani. Non rimandano a un difetto di fabbricazione. Anche la depressione, se ci pensiamo, può essere vista come un tic: non fisico, ma psichico. Un movimento interiore ripetuto, che non riesce a smettere.

Allora forse è il caso di dirlo chiaramente: non siamo sani perché siamo perfetti. Siamo sani quando le nostre risorse riescono – almeno ogni tanto – a essere più forti delle nostre fragilità.

L’inconscio, di cui i tic sono una manifestazione, non è un mostro. È parte di noi. Anche se a volte ospita mostruosità, resta umanissimo.

E riconoscerlo, senza paura, è già un modo per farci pace.

Quando finisce un amore…

Quando si lascia qualcuno che ci ama ancora, mentre noi non sentiamo più lo stesso, accade spesso qualcosa di molto comune, quasi automatico: si cerca la colpa per non sentire il dolore.

Invece di stare nel dispiacere – quello autentico, nudo, che ci rende umani – cerchiamo un colpevole. A volte siamo noi stessi. A volte è l’altro. Ma il meccanismo è sempre lo stesso: se c’è colpa, allora c’è qualcosa da punire, da spiegare, da chiudere. È più facile che restare nella tristezza di ciò che non funziona più.

Eppure, quando un amore finisce, la verità – quella semplice e difficile – è questa:

“Mi dispiace davvero. Quando ci siamo messi insieme, lo abbiamo fatto perché ci volevamo bene. Nessuno ce l’ha imposto. È stato bello, e per un po’ ci ha fatto bene. Ma oggi non posso fingere. Non è giusto per me, e nemmeno per te. Non puoi stare con una persona che ti ama a metà.”

Questo è dolore sano. È il dolore che non cerca colpe, non forza il cuore a battere dove non sente più nulla. È la sofferenza pulita del riconoscere che i sentimenti, a volte, cambiano. E che non possiamo comandarli.

La colpa, invece, è nevrotica. Ci illude di poter controllare l’amore. Come se bastasse uno sforzo in più, un gesto in meno, per riaccendere ciò che si è spento. Ma non funziona così. L’amore, come una rosa, si può coltivare – questo sì – ma non si può forzare a fiorire.

E qui entra in gioco un altro nodo delicato: il perdono.

Il perdono ha senso quando c’è una colpa reale. Ma in questi casi – in cui nessuno ha tradito, nessuno ha mentito, nessuno ha voluto fare del male – il perdono rischia di essere solo una finzione. Un modo per chiudere una porta che in realtà non si vuole davvero aprire.

“Ti perdono”, dice chi è stato lasciato. Ma spesso, sotto sotto, è solo una frase per trattenere ciò che non si può più tenere.

La verità è che il perdono, se non passa prima attraverso un’accettazione profonda, non basta. E che il dolore – quello vero – va riconosciuto, attraversato, accolto. Senza fretta. Senza troppe parole.

In amore, ci sono cose che possiamo fare: prenderci cura, ascoltare, coltivare. Ma non possiamo decidere cosa sentire. Il sentimento non si comanda. Non è un dovere né un merito. È un mistero.

L’unico dovere che abbiamo, forse, è questo: riconoscere ciò che sentiamo, e rispettarlo. In noi e negli altri.

Perché se c’è qualcosa che possiamo fare davvero, è lasciare andare con onestà. Dire “mi dispiace, tanto”, senza accusare e senza accusarci. Accettando che, a volte, l’amore finisce. E che anche questo fa parte della nostra umanità.

Considerare Freud superato è possibile?

Spesso si sente dire che Freud è “superato”. Ma chi lo afferma, il più delle volte, ha letto poco o nulla di ciò che ha scritto. È curioso, poi, che a “superarsi” abbia cominciato proprio lui. Volume dopo volume, lungo tutta la sua opera, Freud ha fatto esattamente questo: ha messo in discussione se stesso. Ha corretto, ampliato, rivisto. Fino a un certo punto, poi ha detto: “Andate avanti voi.”

Ecco perché superare Freud è possibile, ma solo dopo averlo studiato. Criticarlo senza averlo capito è un’abitudine comoda, ma sterile.

Non c’è scienza che non si trasformi. Galileo ha superato la cosmologia tolemaica, eppure oggi continuiamo a chiamare “firmamento” un cielo che, proprio grazie a lui, sappiamo non essere affatto fermo. È stato lui, nel 1610, con l’uso del telescopio, a dimostrare che Giove aveva satelliti in orbita: una scoperta che non solo apriva la strada alla teoria copernicana, ma sgretolava l’immobilismo della vecchia visione aristotelica.

Anche oggi, se facessimo un referendum mondiale chiedendo se il Sole gira intorno alla Terra o viceversa, non sarebbe scontato il risultato. Per molti, ancora, il senso comune pesa più del sapere.

Lo stesso succede con Freud. C’è chi liquida il complesso di Edipo con battute frettolose, tipo: “E allora con le coppie omosessuali come la mettiamo?”
Ecco, appunto: “come la mettiamo?” è una buona domanda, ma va presa sul serio.

L’identità anatomica non esclude la differenza. In una coppia omosessuale, come in qualunque relazione affettiva, ciò che conta non è solo il corpo, ma la funzione che ciascuno sa assumere. Il legame non si costruisce sull’identico, ma sul complementare. L’amore si regge su uno scambio: “Ti do ciò che a te manca, tu mi dai ciò che manca a me.”

Anche nel crescere un figlio, ciò che serve non è l’eterosessualità dei genitori, ma la loro capacità di incarnare funzioni diverse. La tenerezza, la protezione, la cura: non sono proprietà di genere, ma modalità relazionali. La funzione materna e quella paterna possono appartenere a chiunque ne abbia la forza, il desiderio, la competenza emotiva.

E in questo, Freud ha aperto strade che ancora camminiamo.

Chi liquida la sua teoria come “superata” dovrebbe confrontarsi, ad esempio, con una delle realtà più tragiche del nostro tempo: il femminicidio.
Nel nostro Paese – non altrove, ma qui – ogni pochi giorni un uomo uccide la sua compagna. Spesso perché lei ha detto: “Basta, ti lascio.”

Sono “tragedie amorose”, si legge sui giornali. Ma non è amore, quello che uccide. È dipendenza. È possesso. È un’incapacità infantile di tollerare la separazione.

È qui che il complesso edipico, lungi dall’essere antiquato, aiuta ancora a pensare. Il bambino che non tollera che la madre lo abbandoni, se potesse, farebbe qualsiasi cosa pur di trattenerla. Il femminicida, in questo senso, è un neonato disperato con in mano una pistola. Non sa vivere senza la madre. E allora, piuttosto che accettarne la libertà, la elimina.

Freud ci ha mostrato che l’amore – il desiderio, il legame, l’identità – non sono meccanismi biologici, ma dinamiche psichiche. E proprio da questa visione complessa, profonda, è nata anche la possibilità di riconoscere come umane – e degne – tutte le forme di amore, incluse quelle omosessuali.

Il primo amore di un maschietto è eterosessuale: la madre. Quello di una femminuccia è omosessuale: la madre. E già questo dovrebbe bastare a togliere all’omosessualità la sua antica aura di “devianza”.

Senza Freud, certe aperture culturali e sociali – ancora oggi incompiute – non sarebbero nemmeno pensabili. È lui che ci ha insegnato che l’identità non è un binario rigido, ma una costruzione in movimento, fatta di mescolanze, contaminazioni, sfumature.

Non c’è maschile e femminile rigidamente opposti. In ciascuno di noi, maschi o femmine, c’è una quota dell’altro. Ed è proprio questo che rende possibile la relazione.

Freud era figlio del suo tempo, certo. Ma ha saputo andare oltre. Ha dato alle donne la parola. E ha costretto gli uomini a interrogare la propria violenza.

Per questo non basta “superarlo”. Prima bisognerebbe leggerlo, studiarlo, praticarlo. E poi, magari, provare ad andare avanti.

…La vita ci chiama

Ci sono dei momenti in cui la vita ci chiama e lo fa nei modi più disparati.
Ci chiama perché possiamo prenderci cura di noi, occuparci di quel che, acquattato all’ombra della nostra presenza, ancora non sappiamo o non abbiamo compreso, o di qualcosa che non abbiamo mai espresso, né con noi stessi né, tanto meno, con gli altri. Sì, la vita ci avverte… Lo fa non più di 3-4 volte spalmate nell’arco di una intera vita. Ai più fortunati potrà capitare 7, forse 8 volte, ma non di più.
Da cosa possiamo comprendere e riconoscere questo “richiamo”? Come facciamo a capire che proprio a noi si rivolge? Quasi sempre da un disagio nascosto, da una sensazione di stanchezza, di svuotamento, o di insoddisfazione. Oppure l’occasione può venirci da una, più o meno improvvisa, importante perdita o dall’incontro con persone che ci parlano di cose a cui non avevamo magari prestato mai gran orecchio, o di argomenti che all’improvviso ci interessano, senza che mai prima avessimo sentito il bisogno di occuparcene. Talora è un amore inaspettato a richiamare la nostra attenzione, a tracciare la strada da percorrere, scombinando i nostri piani, fino anche a costringerci a fare bilanci. Magari un amore che non rientra nei canoni della persona a cui fino a quel momento ci credevamo interessati.
Insomma, la vita ci chiama per non farci essere come tutti gli altri (da non dimenticare che tutti siamo simili si, ma identici soltanto a noi stessi), per stare alla larga dai luoghi comuni, dai pensieri, dagli schemi precostituiti, da un passato quando aggrappato sul presente, che ci tolgono respiro, anni di vita gioiosa e soprattutto ci impediscono di vivere la cosa più preziosa che abbiamo: la nostra meravigliosa diversità.
Compito non comune e per nulla facile in un’epoca in cui tutti vogliono assomigliare a tutti, in cui il lifting tanto di moda, o i cosiddetti selfie (l’autoscatto) – che nel loro smodato uso sembrano essersi imposti come un vero e proprio comportamento sociale e di massa, peraltro pienamente in linea con l’era tecnologica in cui siamo immersi – ci stanno rivelando che essere autentici è diventata una cosa marginale.

La performance musicale che segue, del pianista e compositore italiano Ludovico Einaudi è dedicata a coloro che hanno pensato (anche se non sanno di preciso come) di fare qualcosa per se stessi. E’ un autore che ascolto e seguo volentieri; non saprei descrivere cosa precisamente renda sintonico il mio pensiero e sentimento in certe situazioni con la sua sensibilità musicale, eppure ho ritrovato delle congiunzioni felici in più di un’occasione, all’ascolto di certi suoi brani in grado di tradurre così bene miei pensieri in musica.
A ciascuno il proprio significato, fosse anche niente.

Buon ascolto!

Una mattina

La paura del buio

Nessun bambino, dico nessun bambino, ma non un neonato, intendo già con qualche annetto e anche più avanti (le bambine poi), entra volentieri in una stanza buia. Ci vuole la manona del genitore ad accompagnarlo/a. Perché?
Se il bambino fosse un adulto scienziato sarebbe tenuto alla neutralità scientifica del “se non vedo non vedo”, e invece no! Se non vedo perché è buio vedo il non, vedo il negativo. Così, il bambino non entra nella stanza buia da solo volentieri perché se non vede, vede “il lupo cattivo”.
E’ un po’ lo stesso principio per cui la “mamma assente” (in rif. alla posizione schizoparanoide di Kleiniana memoria), quindi non visibile in quel momento, la mamma buia per dir così, diventa una strega.
Il buio è l’assenza e l’assenza diventa presenza negativa. D’altra parte spesso nelle fiabe c’è un bambino che si perde nel bosco finché ad un certo momento vede un lumino, lontano lontano e finalmente indirizza i suoi passi verso quella luce che via via si fa sempre più viva e vicina. Ed è la salvezza, poiché finché c’è il buio c’è l’angoscia dell’abbandono.
Eh, siamo fatti così. Per questo – tornando a Freud, diciamo allo stato puro – l’inconscio è prevalentemente un luogo di fantasmi persecutori, perché se non lo conosco lo temo: c’è il lupo nell’inconscio.
Ho imparato a considerare l’interpretazione necessaria oltreché legittima, soltanto nei luoghi della sofferenza, in quelli bui, oscuri, paurosi; in quelli rischiarati dalla luce della felicità, di qualsiasi genere si tratti, non serve, rischia anzi sempre l’interpretazione, di risultare riduttiva.

Respiranza

– “Perché affezionarsi dottore, tanto prima o poi tutti se ne vanno.”, dice Tizio.
– “Perché allora non restare chiusi in casa, che fuori c’è senz’altro più possibilità di buscarsi un malanno?”, rispondo io.

A parte amichevoli constatazioni come questa, che non c’entrerebbero il bersaglio, possiamo constatare che il paziente che si dichiara con questo proposito, sta raccontando che ogni volta che ha perduto un oggetto d’amore non ha incontrato il dolore sano, certificato di valore dell’oggetto perduto, quanto piuttosto l’angoscia. Così non ha mica tutti i torti, tutto sommato, a immaginare una difesa che somiglia un po’ a questa: “Se nei cibi c’è qualcosa che mi fa male, smetto di mangiare.”.
Il dolore sano invece è dolore, ma è sano appunto!, pertanto è opportuno impiegarlo ogni qual volta se ne presenti la necessità. A tal proposito val la pena scomodare proprio nonno Freud quando nel suo saggio “Lutto e Melanconia”, un testo del 1917, – cito soltanto una frase – dice:
E’ peraltro assai rimarchevole il fatto che nonostante il lutto implichi gravi scostamenti, rispetto al modo normale di atteggiarsi di fronte alla vita, non si pensa di considerarlo uno stato patologico e di affidare il soggetto, che ne è afflitto, al trattamento del medico.”
Parola di Freud.
L’angoscia va affidata alle cure, quella sì, sta bene, non il lutto.

– “Ma Dottore io non voglio che la psicoterapia mi faccia riguadagnare la speranza!, (perché – aggiungo io – mi espone alle delusioni)”.
E così mi capita alle volte di rispondere:
-“Stia a sentire, se lei non vuole che io lavori per le sue speranze, mi da il permesso di lavorare per i suoi desideri, i suoi appetiti?” 
Perché poi i desideri sono un altro nome dato alla speranza. Oppure, accetto comunque la sfida, ma faccio notare al paziente una cosa:
– “Caro Sig. Bianchi sa perché sono perplesso sull’accettare questa sua pretesa da me? Lei ha detto che spesso le manca il respiro, le manca il fiato? Bene, allora facciamo così, lavoreremo insieme perché lei possa imparare a respirare a pieni polmoni. Guardi che la speranza si chiama anche “respiranza”.  (…Tiè!!)
Perché la sua strategia è come se mi dicesse: “Senta, lei mi deve togliere l’appetito così posso attraversare il deserto; se mi aiuta a togliere la fame, togliere la sete, non avrò più bisogno di niente e di nessuno, in questo modo potrò anche trovarmi in una condizione dove non c’è cibo, non c’è acqua e sarò in grado di resistere lo stesso”.
Non è possibile.
– “No, lei caro Sig. Bianchi sta dicendo che conta di evitare le delusioni, liberandosi dalle illusioni. Ma non è detto che le speranze siano illusioni.
Ci sono sicuramente delle speranze per loro natura illusorie; per esempio la parola “desiderio” che vuol dire “avvertire la mancanza delle stelle”, eh, certo che è un’illusione, le stelle non le possiamo mica tirar giù dal cielo allungando una mano. Loro stan bene dove sono.
Così lei mi sta forse dicendo che tutte le volte, poche o tante che siano, in cui ha avuto l’occasione di perdere una persona cara o una situazione cara – anche un posto di lavoro è bene saperlo da luogo al lutto – ne ha avuto una sofferenza terribile e non c’era nessuno che se ne accorgesse, nessuno che l’aiutasse a renderla sopportabile. Perché il dolore sano sa, è importante, poichè non è possibile evitare i dolori della vita.
Il dolore si presta alla condivisione e si chiama proprio “condoglianza” quando facciamo riferimento alla partecipazione al dolore di una persona per un lutto che l’ha colpita, e la vicinanza di persone amiche, cari che ci consolano, ci fa bene, ci rende tollerabile questo dolore.
Le persone depresse si voltano dall’altra parte, non vogliono nessuna consolazione. Perciò lei mi sta dicendo che è stato troppe volte lasciato solo di fronte al dolore delle sue speranze perdute, perdute nell’oggetto. Ma la speranza è il nostro stato d’animo che è rivolto a un oggetto, che può essere una persona, un luogo, un obiettivo della vita, ecc. . L’inconveniente che le è capitato è che quando ha perduto l’oggetto, insomma quando ha perso il cibo, ha creduto conveniente di perdere anche l’appetito. Ma la speranza è un appetito.
Certo, quando si perde un oggetto delle nostre speranze c’è un dolore da attraversare, il cosiddetto lutto. Lutto è parola che viene dal latino luctus dal verbo lugere che vuol dire piangere. Per dire che c’è da piangere, ma nessuno è mai morto per un lutto, mentre si può morire per disperazione.
Quindi lavoriamo insieme affinché lei impari a piangere e possibilmente accettando la consolazione di chi le vuol bene. Certo è una ferita, è vero, e le ferite sanguinano, ma non è scritto da nessuna parte che tutte le ferite siano immediatamente mortali. Anche quel taglietto sulla punta dell’indice che potrebbe aver spaventato quel bambino la prima volta che vide il proprio sangue: “Guarda mamma!!!” Ma una mamma che non si spaventa dice: “Guarda, ti farà un po’ di bruciore, ma succede mica niente sai: adesso ci mettiamo un cerotto e vedrai che starai meglio.”

Ora, ho in mente un bambino che era così orgoglioso delle sue ferite che chiedeva d’aver un cerotto anche sul braccio sano. Quel bambino è diventato dottore.

Una promessa che non può essere mantenuta

(Un po’ di teoria delle tecniche di comunicazione tra terapeuta e paziente nell’era delle connessioni veloci).

Penso che chiunque faccia lo stesso mio mestiere, abbia come principio generale quello d’essere disponibile per i propri pazienti, ma non onnipotente e nemmeno onnisciente, nel senso che il luogo della comunicazione è massimamente la “stanza delle parole”. Anche per le comunicazioni relative al setting, vale a dire “vengo…, non vengo..”.
Perché dico questo? Perché, anche una volta sottratta la quota mia personale di antipatia per i “messaggini” (pazienza), credo che la voce viva del telefono o anche del telefonino, sia quella che veramente CI DICE. Perché il tono della voce con cui la paziente dice: “Ma io vorrei disdire, ecc.”… intanto le comunicazioni di mancata seduta è bene farle in viva voce. Seconda cosa, deve essere l’eccezione, e cioè: “Perbacco è crollato il ponte sul Po, eh come faccio ad attraversarlo ed essere in tempo alla seduta?!”. Insomma, normalmente, un “Non verrò venerdì alla seduta”, ci può stare (poi si vedrà se va pagata o non va pagata ecc.), però è una comunicazione che andrebbe fatta di persona, faccia a faccia.
Ora non credo di esagerare, ma specialmente noi giovani terapeuti tendiamo a consentire credo – sicuramente anche per stare al passo coi tempi – un uso eccessivo di questi mezzi d’informazione. In che senso eccessivo? Perché la modalità “messaggio” ci mette di fronte al fatto compiuto. Mentre al telefono si può dire: “Senta, va bene, se lei dice che non può venire venerdì, io ne prendo nota, vuol dire che ci rivedremo lunedì”, col telefonino invece, arriva un messaggino, poi la tentazione è quella di rispondere con un altro messaggino, e poi cosa facciamo, come coi cioccolatini? Ora, già nutro qualche dubbio sull’utilità di certo messaggiarsi al posto che sentirsi in viva voce; può avere senso (relativamente) farlo tra persone amiche o legate da affetto, con i pazienti francamente preferirei di no perché fa una promessa; sì il telefonino contiene in se per tutta l’umanità badate bene, una promessa che non può mantenere. La promessa è: “Io per te ci sono sempre”, che non è reale, non è realistico, tanto meno vero.
Ho saputo da fonte autorevole che la curva incrementale della vendita dei telefonini a partire dagli anni’ 90 con annessi e connessi e la curva incrementale degli attacchi di panico che si presentano al pronto soccorso sono parallele. Ora questo non basta, statisticamente sappiamo che tale parallelismo non è una prova, ma solo un indizio. Di che cosa è indizio? Della diffusa difficoltà a tollerare l’attesa. La gente non vuole, non sa più aspettare, perché ha avuto la promessa della presenza costante.
Risultato: io chiamo il mio fidanzato, lui non mi risponde, “Oddio il mio amore è morto!” Oppure, lui mi chiama io non rispondo perché impegnata, e lui penserà che io sia morta. Adesso estremizzando un po’ il vissuto, ma posso assicurare che certa gente se li vive per niente bene “banali incidenti” come questo.
L’attacco di panico, mi è stato insegnato, ha un nome troppo fortunato, si chiama angoscia abbandonica, perché tutti i bambini del mondo la cosa che più temono non sono le botte (quelle fanno male, anche tanto, ma per picchiarmi ci devi essere, devi esser qui accanto a me) quanto piuttosto l’essere abbandonati. Per tutti, nessuno escluso, – compresi gli ex bambini che non sopportando l’abbandono ammazzano la femminuccia e poi si ammazzano – questo ha a che fare con un mancato allenamento ad attendere.
E così TUTTO SUBITO, o per dirla come ce la continuano a proporre sotto varie forme in pubblicità: LIFE IS NOW! Emerita e grossolana coglionata. La vita è adesso? No! La vita non è solo adesso, è troppo breve l’“adesso” per garantire significato alla vita. La vita è storia, memoria e speranza. E’ passato e futuro.
(fine del predicozzo)

Tutto questo per dire anche che se e quando un paziente dovesse incontrare il mio silenzio ad un suo messaggino, di non interpretarlo come atto di scortesia.

 

 

“Non ci riesco dottore, è troppo difficile per me pensare come lei dice.”

La cosiddetta regola fondamentale psicoanalitica fu una trovata a mio dire geniale, perché al paziente non viene proprio per niente chiesto d’essere bravo, d’impegnarsi, nel senso che generalmente s’intende. Quell’invito a lasciarsi pensare ad alta voce come viene viene vuol dire in altre parole: “Tu mi interessi, qualsiasi cosa ti venga alla mente e dalla mente alla voce”.
Questa regola d’impronta freudiana, è la forma più semplicemente critica della bravura e della pretesa.

  • “Io non pretendo niente, ti invito, ti auguro, di darti la libertà qui, io comunque te la consento, anzi sono partigiano della tua libertà, caro paziente. Quindi non chiedo la bravura, perché davanti al professore, che ne so di matematica, ci è chiesta la bravura di dimostrare, eh, con precisione il teorema di Pitagora, ma qui c’è un lasciarsi dire che è altra cosa dal “Parlami bene di questo, questo e quest’altro” ”.

Un buon terapeuta, o analista insomma è un “genitore” che non chiede, è una “mamma” che non chiede al suo bambino/a di essere bravo/a. Oh sì, più avanti sì che ci vuole, perché imparare a farla nel vasino richiede appunto bravura, ma i bambini hanno diritto prima di tutto d’esser trovati belli, ossia ben voluti gratuitamente.
Spesso i pazienti hanno timore che anch’io voglia da loro la bravura, così li aiuto a riflettere sul fatto che semmai li invito, viceversa, a esser sinceri…come viene viene.

  • “Ma non ci riesco dottore, è troppo difficile per me pensare come lei dice, a voce alta come viene viene.”

  • “E’ vero – rispondo io – non è così facile perché non è nelle nostre abitudini, il nostro quotidiano raramente ci offre questa libertà; dobbiamo dire o fare con precisione questo, poi questo, poi quello, a partire dalla scelta di che tipo di pane chiediamo al fornaio: “Dimmi cosa vuoi?” insomma.”

Invece nella “stanza delle parole” no, non è necessario né richiesto. Piuttosto: “Lasciati sognare..”. La cosa buona e bella è proprio questa libertà dell’immaginazione, della fantasia, del sognare “ad occhi aperti”.
Vero è che terapeuti, psicoanalisti sono golosi, sì lo sono, ma non di bravura, bensì dei sogni, golosi della fantasia. E così mi capita di dire:

  • “E’ vero che non è così facile, ma io le suggerisco di provarci, lei ci provi. Vedremo insieme, dove, quando, come e perché, arriva un pensiero che lei pensa sia difficile da dire, magari perché il pudore lo vieta e se ne vergogna, ecc.”.

Dunque, chiunque faccia questo mestiere deve poter garantire bellezza a qualsiasi contenuto di fantasia; anche i “sogni brutti” diventano belli se noi impariamo a considerarli come parole in lingua straniera che, sapientemente interpretate, siamo capaci di tradurre in un linguaggio comprensibile. E allora che sollievo no?! quando ci si capisce tra persone, ma anche che sollievo quando si capisce se stessi e si arriva a perdonarsi il sogno, anche quando abbia avuto un contenuto terribile, o aggressivo.

 

La “nostra” Storia Infinita

Le passioni umane sono una cosa molto misteriosa e per i bambini le cose non stanno diversamente che per i grandi. Coloro che ne vengono colpiti non le sanno spiegare, e coloro che non hanno mai provato nulla di simile non le possono comprendere. Ci sono persone che mettono in gioco la loro esistenza per raggiungere la vetta di una montagna. A nessuno, neppure a se stessi, potrebbero realmente spiegare perché lo fanno. Altri si rovinano per conquistare il cuore di una persona che non ne vuole sapere di loro. E altri ancora vanno in rovina perché non sanno resistere ai piaceri della gola, o a quelli della bottiglia. Alcuni buttano tutti i loro beni nel gioco, oppure sacrificano ogni cosa per un’idea fissa, che mai potrà diventare realtà. Altri credono di poter essere felici soltanto in un luogo diverso da quello dove si trovano e così passano la vita girando il mondo. E altri ancora non trovano pace fino a quando non hanno ottenuto il potere. Insomma, ci sono tante e diverse passioni, quante e diverse sono le persone.”

In una maniera chiara e condivisibile questo estratto, da La Storia Infinita di Michael Ende, rende omaggio credo al versante non prevedibile che è in ogni essere umano.
E’ una questione proprio di ordine filosofico; la prendo da lontano.

Come sarà la prossima appendicite, la prossima frattura del femore, la prossima influenza, la prossima depressione, la prossima psicosi paranoide, lo sappiamo già noi del mestiere. Eh, come dire: “ Vista un’appendicite, viste tutte!”.
Il male, cioè, ha modalità ripetitive da persona a persona; a grandi linee certo, non in maniera meccanica, però sostanzialmente sì. Le malattie sono prevedibili nei loro meccanismi, soprattutto dopo gli ultimi due secoli di pensiero medico.
Invece nessuno può dirci come sarà il prossimo grande poeta, come sarà il prossimo immortale compositore di musica che vince il tempo, come sarà il prossimo grande pittore o scultore: questo non è prevedibile.
Perché non lo è? Perché mentre la Scienza è per tutti, come mi ha ripetuto più volte colui che mi ha insegnato cose come queste,  l’Arte è per ogni singola persona, e fa riferimento a quel versante della persona umana, il versante sano, che non è ripetibile. Io non potrei dire mai: “Visto il signor Rossi, visti tutti”, o “vista la signora Bianchi viste tutte”. No! perché il signor Rossi è quello lì, unico e irripetibile, e così dicasi della signora Bianchi. Per tutto l’universo dei tempi e degli spazi non ci sarà una fotocopia di quest’uomo o di questa donna, ne di ciascuno di noi.
Questo significa che l’essere umano è titolare anche di “mistero”, e il mistero non è replicabile: il mistero è mistero, punto e basta. Non lo conosciamo, e certo l’appendicite è appendicite ed è per nostra fortuna ripetibile da persona a persona, ma come il signor Rossi e la signora Bianchi saranno abitati da quella patologia che è ripetibile, questo non ci è dato saperlo. Si potrà fare esperienza di chirurgia dell’appendicite, ma non si può fare esperienza della singola persona, unica e irripetibile.
La clinica è questo omaggio, laddove Kline dal greco vuol dire “mi inchino/ mi inclino” a rispettare questa unicità che è la persona.
Quello che noi, quando sufficientemente addestrati, possiamo prevedere è la patologia (il negativo) a grandi linee, ma insomma abbastanza pronosticabile. Non sarà invece mai prevedibile la singolarità, la misteriosità a cui ogni singolo essere umano ha pur diritto.

Si potrebbe concludendo dire che la vita in generale è qualcosa al pari di un “romanzo fantastico” e che la “storia è infinita” un po’ per tutti.

P.S. Un omaggio alla bellezza di uno dei miei maestri, dott. Gino Zucchini, da cui ho imparato molto sulla Scienza e Arte insieme, Psicoanalitica.