– “Ho bisogno di te amore mio!” è una frasetta che va disambiguata, va chiarita. Perché?
Se ho bisogno di te perché solo quando ci sei tu suonano le campane, volano le rondini e fioriscono le rose anche in pieno inverno, è un conto. Se, viceversa, ho bisogno di te perché senza di te non so camminare, non so vivere, non so stare, e questa è una dichiarazione di bisogno, no?, altra cosa dunque da una dichiarazione d’amore; cioè, amore come bisogno, che ben inteso è perfettamente legittimo, ma è l’amore di tutti i bambini verso i genitori. Loro non possono ancora far distinzione tra il bisogno e i desideri, per questo poi sono impazienti: quando vogliono, vogliono!
Eh, l’adulto…quando il rito del matrimonio ospita la famosa frase: “Nella buona e nella cattiva sorte..”, non è una parola sciocca poiché indica tutte e due le possibilità. Nella buona sorte, c’è la felicità, c’è la libertà, c’è la salute e tutto questo è bello e forte e non muore nessuno se, ad esempio, uno dei due prende il treno e va da un’altra parte per poi tornare, ecc. Nella cattiva sorte, se uno dei due si trova a letto febbricitante per giorni, corna facendo per settimane, eh no, non è che l’altro può andare a spasso; hanno fatto un patto appunto: lui con lei, lei con lui, nella buona e nella cattiva sorte.
Questa competenza a distinguere il bisogno dal desiderio è un’acquisizione adulta. Quando si è malati, intendo impediti fisicamente, si regredisce fisiologicamente, diventando un po’ bambini e può quindi accadere che il bisogno prevalga sul desiderio.
Una bella camminata in montagna non è un bisogno è un desiderio che procura piacere. Quando il desiderio incontra l’oggetto corrispondente si chiama piacere. Quando è il bisogno invece a incontrare l’oggetto corrispondente, mah, può esserci anche lì il piacere, ma intanto si trova la tranquillità: “C’è qualcuno che si occupa di me, non sono solo insomma”.
Contrariamente, il bisogno di un intervento chirurgico, non può essere fonte di desiderio. Il bisogno di salute sarà desiderio al di là dell’andamento delle cose quando andranno per il verso giusto.
Insisto su questo punto, perché? Viviamo in un tempo che ha difficoltà a fare questa distinzione, complice la rapida disponibilità di oggetti di desiderio che un tempo richiedevano tempi lunghi.
– “Ho voglia del motorino mamma!”
– “Eh no caro, ne riparliamo tra un anno, adesso sei ancora troppo piccolo. (Ma non “cavatelo dalla testa”, no!, tienilo ben a mente, però lo avrai non prima di un anno)”.
Per dire quindi, desideri lunghi. Quando arriva il motorino poi è la felicità, la libertà che prima non avevo nella stessa misura. Ma se il motorino arriva subito, come arriva subito la penicillina se ho la bronchite, tutto diventa urgente, e cosa succede? Succede che diventano bisogni degli oggetti che in realtà potrebbero stare dalla parte dei desideri. Fortunate in questo le persone avanti con gli anni che possono ancora oggi gioire festosamente per l’arrivo di, che ne so, un bel vestito nuovo, perché là e allora per averlo dovevano aspettare un anno.
Il TUTTO E SUBITO ha un inconveniente: elimina le attese, quel tempo che intercorre dalla nascita di un desiderio e l’arrivo dell’aggetto corrispondente.
L’attesa è preziosa. Se il desiderio viene saturato subito acquista caratteristiche di bisogno, ma i bisogni non ci fanno mica felici! Se abbiamo voglia dell’automobile nuova (la voglia, non il bisogno) – e l’automobile ce l’abbiamo già però è uscito quel nuovo modello che ci soddisfa di più – e arriva subito, perde di valore. Il desiderio lungo quindi, attribuisce valore. Il desiderio rapidamente saturato perde di sapore.
Il poeta, scrittore francese Paul Valéry applica questo principio persino al pensiero, all’idea originale: “L’idea è vanto di un desiderio molto lungo, quando arriva.” Eh, se un’idea è nuova occorre desiderare a lungo.
Mese: marzo 2016
Quel paziente è un borderline!
È stata inventata per un certo tipo di personalità una diagnosi tutto fare che fa un po’ arrabbiare e anche un po’ ridere: BORDERLINE.
– “Quel paziente è un borderline!” si usa dire, ma è uno strafalcione della diagnosi perché la diagnosi degna del nome è la raccolta – si chiama anche sindrome, no? – di alcuni sintomi di sofferenza che hanno un elemento in comune. Questo elemento è circondato da un cerchio, (idealmente il complesso diagnostico è un cerchietto che contiene A+B+C+D, diverso dall’altro cerchietto lì vicino che è rappresentato da E+F+G+H). Una diagnosi è un circoscrivere un complesso di sintomi che hanno in comune un elemento tale da giustificare il fatto che noi li teniamo assieme.
Ora, la diagnosi Borderline è come dire ghiaccio bollente poiché “border” significa che la sofferenza del paziente non si lascia raccogliere in un quadro o cerchio sindromico in quanto il paziente è sul bordo di ogni diagnosi. Ed è vero, è sempre fuggiasco il nostro “borderline”. Ma allora è inutile, tanto valeva chiamarlo schizoide come da vecchia diagnosi.
Dire Borderline è dunque una finta diagnosi perché se il paziente sta sul bordo, ed è un eterno fuggiasco, come cavolo fai a diagnosticare qualcuno che continua a scappare??
Ed è così che sotto l’aspetto di una parola diagnostica autorevole, la diagnosi di Borderline in realtà risulta una implicita dichiarazione d’impotenza. In altre parole, borderline significa esagerando un po’: “An gò capì nient!”, giacché non si lascia com-prendere, non si fa capire, e spesso non si lascia dir niente perché tanto si dice tutto da solo.
Questo lo rende ad una prima impressione, inaccessibile. Almeno fino a quando… .
Chiedo la parola
Spesso constatiamo il paradosso di come possa accadere che l’angoscia renda arroganti; per il senso comune potrebbe sembrare un po’ un controsenso e invece no. Per via d’inconscio, il quale suggerisce gli opposti: se tu hai, ad esempio, paura di non avere la parola, te la prendi con arroganza.
Difatti, certi modi di dire, di fare, di usare la lingua italiana sono significativi, poiché se siamo in un’assemblea, c’è un microfono, qualcuno parla e quando vogliamo parlare anche noi, allora alziamo la mano e diciamo: “Chiedo la parola”. Il presidente dice di rimando: “Do la parola a…”.
Ma cosa dici?! Come “do la parola”?? La parola ce l’ho già, la voce pure, la logica anche, eppure questa espressione è d’uso comune. Certo che il presidente ha più potere dei singoli, perché se non ci fosse una direzione del dibattito sarebbe una caciara infinita e quindi rispetto ai singoli presenti nell’assemblea ci vuole qualcuno che al microfono tenga conto di quelli che hanno alzato la mano, che vogliono parlare e poi dice: “Bene, adesso la parola va a Rossi… No, Bianchi dopo, dopo parlerai tu.”
“Adesso ti do la parola”, “prendo la parola”, ecc. è un’espressione che ha dunque un significato.
Se la chiedo vuol dire che non ce l’ho. È diverso dal “Chiedo il permesso di parlare”, no, chiedo proprio la parola. È saggio dire “chiedo il permesso”, eh me lo devi dare tu, poiché sei tu che dirigi l’assemblea.
Invece, “chiedo la parola” “ti do la parola” fa riferimento al fatto che ogni nuovo nato nel mondo, non sappiamo se saprà parlare oppure no. Tant’è che ho saputo con piacevole sorpresa da fonti autorevoli che in tutto il mondo la mamma si chiama mamma – altra cosa è madre, ma proprio mamma – senza bisogno di traduzione.
Perché? Perché si rifà al gesto del ciucciare. La prima cosa che fa il neonato se vuole campare è proprio mammellare, mammare perché aprire e chiudere la bocca è succhiare, insomma.
Quando il cucciolo umano, bacaiando, giocando con la propria voce ancora in maniera del tutto casuale, no? la cosiddetta lallazione, però succede che dica sussurrandolo ma-ma-ma-pa-pa-pa… . Un attimo dopo: – “Ha detto papà!!?”, – “No, ha detto mamma!!” (mamma viene prima del papà ovviamente).
Allora, “do la parola…chiedo la parola”, “avere voce in capitolo”, avere il sentimento di poter dire qualche cosa di buono, allude al fatto proprio del rischio di non averla la parola che poi per metafora significa anche la libertà.
“Niente di nuovo…”
C’è una specie di fraintendimento della novità, laddove tutto deve essere nuovo. Come poi spesso accade, bisogna intendersi.
Mi racconta Tizio: “Mah, cosa vuole che le dica, la solita minestra…niente di nuovo, i soliti gesti, le solite cose…”. Eh, mica vero, perché il gesto di oggi somiglia a quello di ieri. Prendiamo ad esempio il caffè che beviamo al mattino, è sempre lo stesso, ma se è buono bisogna pur farlo sempre nella stessa maniera: no?!
È la giornata di oggi che non è più quella di ieri e non torna indietro, e quella di ieri non la possiamo richiamare; la possiamo rievocare quello sì, ma non revocare. Quindi, l’idea “niente di nuovo” risulta un fraintendimento. Come se ci fosse la necessità che il sole cambiasse il suo modo di essere.
Se ci pensiamo bene, come fa a non esserci nulla di nuovo nel sorriso di un bambino? E tu lo pensi lì, mentre lui è già arrivato più avanti: il bambino in crescita è uno spettacolo affascinante. Poi qualche volta anche i “vecchi” sono capaci di crescere, in altre parole, di sorprenderci… se glielo permettiamo.
Il “niente di nuovo” è il risultato di un’operazione di usura, di consumazione, da cui quel fin troppo facile “Mah, chissà cosa mi credevo?! Tu mi avevi mica promesso la perfezione, invece c’è una giornata come quella di eri!”.
E a quel punto anche il respiro diventa banale. Come banale??! Quando ti manca il fiato t’accorgi quanto il respiro sia, per così dire, sempre nuovo”.
È la svalutazione del presente in atto, in quei casi poi – complice la frenesia di nuovi oggetti, nuove forme, nuove mode e dai, dai dai – che fa tutto rapidamente invecchiare.
Allora cosa mi capita di rispondere a quell’ennesimo:
– “Adesso cosa c’inventiamo dottore, che facciamo?!”.
– “Niente, non facciamo niente. Non è vero che dobbiamo sempre fare. Possiamo anche non fare, e guardare il panorama, e pensare.
Questo è un segreto!
Signori genitori (separati) mi permetto di farvi una predica probabilmente inutile.
Per carità d’Iddio, non usate, ne direttamente ne indirettamente, i vostri bambini come agenti del controspionaggio. Spiarvi a vicenda da una parte o dall’altra, quand’anche fosse solo una delle due a usare come agenti segreti i comuni figli, non s’ha da fare; questo non sarebbe autorizzato. Lo so che sto facendo una predica inutile per molti di voi, però l’importante è non dimenticarlo mai.
Quando il cosiddetto segreto è veramente segreto, di solito non ha bisogno d’esser intitolato; “Questo è un segreto della mamma” semplicemente non lo si dice, anche perché una volta detto… .
Questo papà ex marito – nel caso preso ad esempio – sa già di che si tratta se è un segreto della mamma che è stato chiamato così, non ha bisogno dei particolari. Voglio dire, se la mamma dice alla sua bambina/o: “Questo è un segreto!, senza aggiungere poi “Guai a te se apri bocca!” al punto che la bambina/o dice tranquillamente e spontaneamente al papà “Sai, la mamma ha dei segreti detti, ma io non te li dico”: va bene.
Questa di cui vi parlo è una misura d’igiene mentale così importante e non si ha idea di quali siano le conseguenze a distanza d’aver subito da bambini delle situazioni di questo tipo. Non il conflitto tra papà e mamma, quello lo sanno già, bensì l’obbligo del silenzio, poiché quest’obbligo diviene anche: “Devo tenere per me non soltanto il racconto che mamma o papà mi hanno detto, quel che io ho visto, ecc., ma anche tutti i miei pensieri e sentimenti che riguardano quella specifica cosa. Per non dare dispiacere al papà, per non fare dispiacere la mamma, devo tenermi non solo il segreto, ma devo tenere segreto anche il mio dispiacere”. E allora i segreti nel cuore dei bambini accompagnati dal divieto di parlarne sono micidiali, poiché intervengono appunto nella libertà dell’uso delle parole come strumento per distinguere il mondo ad occhi chiusi (pensieri, sogni, immaginazione, fantasie, desideri,..) dal mondo ad occhi aperti (i fatti, le persone, la realtà, la verità, la storia,…).
Eh, non si nasce pensatori, lo si diventa.
Concludendo, ci sono diversi modi di dichiarare, descrivere, intitolare la sana capacità di pensiero, di ragione e di sentimento…tanti modi, uno molto semplice che ho imparato a pronunciare così è questo: la capacità di distinguere il mondo ad occhi aperti, dal mondo ad occhi chiusi. Dal mio mondo ad occhi chiusi.