È stata inventata per un certo tipo di personalità una diagnosi tutto fare che fa un po’ arrabbiare e anche un po’ ridere: BORDERLINE.
– “Quel paziente è un borderline!” si usa dire, ma è uno strafalcione della diagnosi perché la diagnosi degna del nome è la raccolta – si chiama anche sindrome, no? – di alcuni sintomi di sofferenza che hanno un elemento in comune. Questo elemento è circondato da un cerchio, (idealmente il complesso diagnostico è un cerchietto che contiene A+B+C+D, diverso dall’altro cerchietto lì vicino che è rappresentato da E+F+G+H). Una diagnosi è un circoscrivere un complesso di sintomi che hanno in comune un elemento tale da giustificare il fatto che noi li teniamo assieme.
Ora, la diagnosi Borderline è come dire ghiaccio bollente poiché “border” significa che la sofferenza del paziente non si lascia raccogliere in un quadro o cerchio sindromico in quanto il paziente è sul bordo di ogni diagnosi. Ed è vero, è sempre fuggiasco il nostro “borderline”. Ma allora è inutile, tanto valeva chiamarlo schizoide come da vecchia diagnosi.
Dire Borderline è dunque una finta diagnosi perché se il paziente sta sul bordo, ed è un eterno fuggiasco, come cavolo fai a diagnosticare qualcuno che continua a scappare??
Ed è così che sotto l’aspetto di una parola diagnostica autorevole, la diagnosi di Borderline in realtà risulta una implicita dichiarazione d’impotenza. In altre parole, borderline significa esagerando un po’: “An gò capì nient!”, giacché non si lascia com-prendere, non si fa capire, e spesso non si lascia dir niente perché tanto si dice tutto da solo.
Questo lo rende ad una prima impressione, inaccessibile. Almeno fino a quando… .
Certe persone sembrano fuggire
caro dottore ma in realtà cercano la loro strada per la pace interiore e non sanno stare con le mani in mano ad aspettare che tutto si risolva da sé.
Spesso le persone cambiano luoghi non per scappare ma perché dove è stato commesso 1 o più errori non si riesce più ad essere se stessi, specie quando le persone ti vedono spoglio delle tue debolezze così si ricomincia sperando di contenersi. Non so sé ho reso l idea.
Gentile Roby,
mah…sì l’idea è resa, l’idea ingenua del cambiare il territorio, cambiare panorama ecc., per vivere meglio.
Ora è curioso perché su questo argomento in latino ci stanno due modi di dire, come noterà, di segno opposto.
Il primo dice, dando ragione a lei: “Fuge coelum sub quo aegrotasti”, la cui traduzione è: “Scappa via di sotto il cielo, sotto il quale ti sei ammalato: scappa via! Cambia, non star lì, insomma.
L’altro proverbio dice esattamente l’opposto, vale a dire: “Caelum, non animum mutant qui trans mare currunt”; la cui traduzione spicciola è: “Ma ndo vai??! Potrai cambiare cielo (inteso come l’ambiente esterno), ma non puoi pensare in questo modo di cambiare animo. Quanti che vanno per mare, o anche per terra, si potrebbe dire, mutano il cielo, ma non mutano il proprio stato dell’animo.
Segno questo che è un pensiero che ha sempre avuto, per dir così, un’umanità ambivalente, controverso dentro e fuori le persone.
Beh, diamo ragione e torto a tutti quanti, allora. Nel senso, se funziona perché no?! Ci sono persone che hanno bisogno e desiderio di cambiare territorio, e forse funziona.
Qui ci riferiamo ovviamente al cambiare territorio, e non di quel fatto mondiale che è l’invasione degli affamati e dei bombardati, ecc. Questi cercano da campare.
Il tema del nostro scambio semmai riguarda più un campare psicologico, che è un’altra cosa.
Pertanto, ripeto, se funziona?! Sono dell’avviso poi, che rispetto a tutto ciò che funziona bene non si dovrebbe “andarci dietro”; allo stesso modo non sarei sorpreso se e quando si dovesse scoprire che NON FUNZIONA questo genere di cambiamento.
Potrei aver compreso male il senso delle sue parole, ma mi pare che la filosofia che vi sta alla base sia: cambiare la geografia (luogo, persone, magari anche abitudini, ecc.) Quella invece alla base di quell’altro costrutto “Ma ndo vai??”, ritiene che cambiamento sia cambiamento apprezzabile e solido dello stato dell’animo.
Direi, il primo teorema sembrerebbe un teorema a sfondo nevrotico. Il secondo invece, è un teorema se vogliamo, psicoanalitico, ossia “Ma ndo vai? Stai qui; così che possiamo vedere, capire dov’è e come sta la ferita e prendercene cura.
Dunque a lei il compito di cogliere quanto c’è stato e quanto ancora c’è d’ingenua difesa in questo andare altrove e quanto c’è di scappare, poiché da sé stessi, poi non si scappa.
Le sue ultime parole, poi, mi lasciano supporre che l’accento cada per lo più sul fatto che ci sono gli altri, nel senso, con cui DOVER fare i conti. Gli altri che ti vedono e che se ti hanno visto persona “matta” è meglio che tu vada dove sei sconosciuto, così non ci saranno pregiudizi su di te.
Il mondo è vario, insomma.
Due parole riguardo alle difese e al loro funzionare o meno.
Ritengo che le difese che una persona mette in atto funzionino bene quando non impediscono la lettura autentica della realtà e della verità. Ciò di cui viceversa mi occupo con i miei pazienti, ha a che fare con le difese che non difendono, vale a dire quando non mantengono la promessa. Ho preso l’abitudine di chiamarle proprio così. La violenza, per fare un esempio, fa la promessa di difendere dall’angoscia. Se io sono violento verso il mio dirimpettaio sarà lui a sbiancare dietro alle mie minacce ed io trionferò, salvo poi domani dovermi aspettare che lui mi renda la pariglia e daccapo.
Tornando a lei e al suo commento credo ci sia anche nella forma dialettale l’espressione: “OH, dai a cal can, dai a cal can!!” che tutti poi “dan a cal can!” E cioè, a furia di, uno che parla male, poi un altro parla male, e un altro ancora, che tutti poi se la prendono con quel cane, il quale magari non c’entra niente. La facilità dell’incolpare, insomma. E forse lei mi sta, come dire, dicendo che troppe persone secondo lei hanno visto e GODUTO delle sue debolezze e allora cerca di andare altrove.
– “Oh, perché no?!”
Forse vuol sapere se sarei disposto ad accompagnarla per dir così, anche nel momento in cui tende a scappare, perché se no scappa da sola.
Concludo con una parentesi relativa all’uso delle parole diagnostiche. Personalmente credo non andrebbero usate come propongono quegli insensati del DSM (manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali). Le parole diagnostiche le uso con i miei pazienti a seconda del peso specifico che anche loro danno alle parole. Nulla vieta quindi di chiamarla, per citarne una, depressione, ma la diagnosi non va lasciata lì. È importante spiegare che cosa s’intende per depressione. E quindi deve sapere che con i miei pazienti per quanto è possibile non uso i termini diagnostici.
Penso che la Diagnosi degna del nome è un regalo di verità e di terapia che si fa al paziente, con il minor numero di parole, possibilmente prese dal senso comune.
Questo è, gentile Roby tutto quello che ho ritenuto più utile dirle.
La saluto, ringraziandola d’essersi aperto con me su un qualcosa che preme in lei; ho il difettuccio di non darle per scontate cose simili.
Dr. F. Bianchini