La paura del buio

Nessun bambino, dico nessun bambino, ma non un neonato, intendo già con qualche annetto e anche più avanti (le bambine poi), entra volentieri in una stanza buia. Ci vuole la manona del genitore ad accompagnarlo/a. Perché?
Se il bambino fosse un adulto scienziato sarebbe tenuto alla neutralità scientifica del “se non vedo non vedo”, e invece no! Se non vedo perché è buio vedo il non, vedo il negativo. Così, il bambino non entra nella stanza buia da solo volentieri perché se non vede, vede “il lupo cattivo”.
E’ un po’ lo stesso principio per cui la “mamma assente” (in rif. alla posizione schizoparanoide di Kleiniana memoria), quindi non visibile in quel momento, la mamma buia per dir così, diventa una strega.
Il buio è l’assenza e l’assenza diventa presenza negativa. D’altra parte spesso nelle fiabe c’è un bambino che si perde nel bosco finché ad un certo momento vede un lumino, lontano lontano e finalmente indirizza i suoi passi verso quella luce che via via si fa sempre più viva e vicina. Ed è la salvezza, poiché finché c’è il buio c’è l’angoscia dell’abbandono.
Eh, siamo fatti così. Per questo – tornando a Freud, diciamo allo stato puro – l’inconscio è prevalentemente un luogo di fantasmi persecutori, perché se non lo conosco lo temo: c’è il lupo nell’inconscio.
Ho imparato a considerare l’interpretazione necessaria oltreché legittima, soltanto nei luoghi della sofferenza, in quelli bui, oscuri, paurosi; in quelli rischiarati dalla luce della felicità, di qualsiasi genere si tratti, non serve, rischia anzi sempre l’interpretazione, di risultare riduttiva.

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