Chi fa il mio stesso mestiere è indotto alla modestia.
Sì, le fobie – per citarne una a caso – si somigliano tutte, ma Tizio fobico è Tizio, identico solo a se stesso e potrebbe non avere nulla in comune con Caio, fobico a sua volta ma in altro modo, ecc.
Questo ci suggerisce il gusto della modestia, ossia il piacere di non dover essere onniscienti o di non dover dimostrare chissà che cosa. Questa la ragione per cui le nostre parole sono sempre (così dovrebbero) col punto interrogativo:
– “Ma non sarà per caso che…”, poiché l’ultima parola non spetta a noi, spetta al paziente, al quale noi facciamo un regalo.
È un regalo sì, perché mettere parole profumate dove c’erano parole puzzolenti: “Ah finalmente si può respirare!”, e il paziente non deve più sentirsi costretto a tapparsi il naso con le orecchie.
Mese: giugno 2016
Al cuor non si comanda
Non so che scrittore abbia detto che siamo messi in modo tale che la nostra felicità molto facilmente costa infelicità per qualcun altro; ed è abbastanza vero.
Qualsiasi innamorato/a respinto perché il cuore del destinatario di tale sentimento è occupato per qualcun altro, eh, se avevo questo desiderio, e rimane vuoto, allora c’è il dolore. Questo è un fatto; c’è il dispiacere, e alle volte l’angoscia dell’abbandono addirittura. Umanamente universale.
Ciò che abbiamo il diritto/dovere di non ritenere obbligatorio è la COLPA, poiché al cuore non si comanda.
Noi abbiamo il diritto/dovere di comandare l’azione, la volontà, il fare, l’andare, il venire, il non fare, ma lo stato dell’animo nostro non lo possiamo comandare. Il nostro sentire lo possiamo solo interrogare; così come non possiamo impedirci di sentire freddo afferrando una palla di neve con le mani nude, o che ne so, impedirci di avvertire la gioia del palato per un cucchiaio di budino al cioccolato. Allo stesso modo non possiamo comandare al cuore: “Sii felice cuore mio!” o viceversa “Sii infelice”.
Se non abbiamo questo potere, ed è indubbio che non ci appartiene, ciò ha una conseguenza logica, psicologica e psicoanalitica aggiungerei pure: non abbiamo colpa. Poiché la colpa è connessa al fare una cosa o al non farla, ma non abbiamo colpa di sentire freddo o il bruciore: lo subiamo.
Ecco tutto.
Sei felice?
La felicità obbligatoria è una delle trappole più insidiose. Io suggerirei alle persone, così, di abolire una domanda molto semplice.
C’è una figlia (o figlio) fresca di matrimonio che va a trovare la zia a cui vuol bene ecc., la domanda che viene poi spesso fatta in occasioni come questa è: “Sei felice?”. Personalmente preferisco il banale “Come stai?”.
Se poi ci fosse mai qualche dubbio in merito, non chiederei mai: “Sei felice?”, quanto piuttosto “Sei capace di felicità?” cioè, “La vita e te stessa ti danno il permesso…sei libera, capace di felicità?” Non dunque se “sei felice”, ma se “sei capace di esserlo”. E se non lo sei vediamo perché.
Allo stesso modo:
– “Sei capace di correre?”
– “Oddio, sto zoppicando.”
– “Beh, vieni qui che vediamo allora come è fatta questa storta al piede che te lo impedisce”.
Non dunque “Perché corri?”, bensì “Cos’è che ti fa male?” insomma.
Senza esagerare per la verità, perché poi non vorrei risultare un po’ pignolo con questa argomentazione, era solo per precisare che la felicità non è una condizione permanente, meno che mai obbligata. Essa è misteriosa, l’importante è saperla cogliere quando l’occasione la favorisce.
Per metafora, sta più nell’appetito che nel cibo. Se c’è buon appetito diventa buonissimo anche pane e salame; viceversa se l’appetito è ghignoso (per qualsiasi ragione disturbato) non funzionano neanche le ostriche più costose.