Il giusto peso

– “Attenzione a non pretenderne troppa di ragione”.
Mi spiego meglio.
Alle volte ci capita di non tenere conto a sufficienza che emozioni come l’allegria, la gioia sono leggere. Noi siamo allegri, ma se dovesse arrivare ad esempio una scossa di terremoto addio allegria, no? Diversamente, emozioni negative come angoscia e collera hanno un peso, e tutto ciò che ha peso ha una sua inerzia, la quale fa continuare per un certo tempo il movimento di la dalla “botta” che l’ha provocato.
Se al biliardo noi colpiamo il pallino, la botta è lì: boom!, ma il pallino ne percorre di strada per inerzia; arriva alla sponda poi torna indietro, magari fa in tempo a colpire altre palle prima di fermare il suo movimento.
Qualcosa del genere accade anche alle persone in presa diretta con i loro “moti interiori”.
Mentre la gioia e l’allegria sono cose leggere, profonde ma leggere come una piuma, e quindi se cambia il vento può cambiare in fretta anche il loro “verso”…in altre parole siamo capaci di allegria, ma se ci capita qualcosa per cui è richiesta una lacrima, c’è poco da ridere! Viceversa non è così per le emozioni a carattere negativo che hanno un loro peso; il peso è inerziale cioè dura dopo la botta che l’ha generato. Come il pallino sul tavolo del biliardo di cui poco prima facevo l’esempio, appunto.
In questo senso mi capita di far notare al paziente che racconta con infervoramento di un litigio o incomprensione di cui magari può avere anche ragione di lamentarsi con l’altro/a, sostenendo che non ha senso il giorno dopo far finta di niente. Sì, può essere opportuno riprenderlo fuori proprio perché qualcosa invece è accaduto. Tuttavia faccio notare perlomeno un rischio (senza ovviamente presentarlo con alcuna certezza), ossia che egli pretenda troppo presto di chiarire e alla svelta quel malumore provocato dal diverbio del giorno prima, in modo da non farlo durare. Ragionevole se è un desiderio, ma se pretesa allora il rischio è che non se ne ottenga l’effetto sperato.

“E vissero felici e contenti.”

A volte mi capita di dire al paziente in una maniera soffice ma solida: “Di solito quando succede questo c’è dietro una storia in cui…”.
Chiunque professi la medicina è autorizzato a usare il termine “di solito” con parole del tipo: “Di solito quando non si riesce a camminare dopo una brutta caduta è perché c’è una frattura; purtroppo potrebbe essersi fratturato l’osso…in genere accade questo. Bisogna andare a vedere, pertanto le prescrivo i raggi, ecc.”.
Con ciò faccio riferimento al fatto che la sofferenza non è poi così
misteriosa, si ripete insomma. In fondo una frattura, vista una, viste tutte; non ha nulla di originale, e volendo, in senso più allargato, potremmo anche dire che non siamo originali nelle nostre sofferenze.
Su questo punto c’è un clamoroso errore di Tolstoj che comincia quello tra i suoi romanzi più conosciuti,
Anna Karenina, più o meno con queste parole: “Tutte le famiglie felici si somigliano; non così le famiglie infelici.”, come se ciascuno pretendesse d’essere infelice a modo suo. Non è così!!
Le fiabe, a tal riguardo, sono sagge, e come finiscono generalmente?
Il racconto della favola prevede tutte le traversie, le magie, le fatiche, le minacce, le battaglie che il giovane principe deve affrontare per arrivare finalmente a liberare la principessa prigioniera del castello incantato guardato a vista da una coppia di leoni feroci o da un grosso drago sputa fuoco. Quando poi i due sul cavallo bianco insieme fuggono verso la felicità ed il futuro, non c’è più niente da dire. La fiaba termina con queste parole: “E vissero felici e contenti.”.
E’ dunque la felicità a non richiedere parole perché non c’è più nulla (di essenziale) da aggiungere, mentre è l’infelicità che richiede la narrazione. Ne fa richiesta poiché i fatti possono essere diversi, ma
l’infelicità è sempre la stessa: angoscia, dolore, paura, violenza, malattia, ecc. . Nulla di nuovo.
Quindi non è vero che tutte le famiglie felici si somigliano, in quanto ognuno felice lo è a modo suo, in maniera misteriosa. E davanti al mistero lo
scrittore si deve fermare. Egli ha da lavorare finché c’è del male, mostrando semmai la natura ripetitiva dell’infelicità umana.
Si può descriverla la felicità, ma non va spiegata. E per descriverla bastano poi quattro parole: “Vissero felici e contenti”, questa è operazione che ha ancora senso fare.
La prima voce dell’infante – e non solo umano, anche del mammifero superiore – è per l’infelicità. Per fame, freddo, paura, il bambino piange. E’ dunque l’infelicità che da luogo alla voce. Se ci pensiamo bene, ciò di cui si parla è quasi sempre qualcosa che non funziona.
Poi si può anche parlare del:
“Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia, quand’ella altrui saluta, ecc.” intendo solo dire che potrebbe anche non essercene bisogno, tanto meno ritengo che non ci sia da guadagnarci a essere felici, no!! Piuttosto, non c’è da dire nulla, semmai da goderne alla vista!!
Anche il linguaggio comune contiene questa
verità; quando si dice: “Oh, non c’è proprio niente da dire su…” vuol dire che va tutto bene, no? Quando invece c’è da dire significa che c’è qualcosa che non va. E’ per questo credo che si parli di felicità ineffabile. La parola “ineffabile” dal greco vuol dire “indicibile”. Non che non se ne possa parlare quindi, semplicemente non va spiegata: è misteriosa, c’incanta.
E questo dovrebbe bastarci.