Madri si nasce, padri si diventa

affido condivisoIn circostanze di separazione conflittuale questo del fare la differenza tra i padri e le madri quando i bambini ancora piccoli è un argomento importante, delicato e che di solito fa infuriare i padri. Tuttavia ha un senso questo fatto. A un certo grado quando i bambini sono molto piccoli c’è poco da fare: “Madri si nasce, padri si diventa”. Le donne hanno la gravidanza che le addestra a questa naturale, biologica competenza che i padri invece acquisiscono piano piano (dopo il linguaggio, generalmente).
Purtroppo ci sono giudici che lo capiscono e altri no, e così vanno dietro alla spartizione dei tempi con il bilancino e con l’orologio spinta fino ai secondi, come se i figli non fossero persone, bensì degli oggetti da poter tagliare in parti rigorosamente uguali.
È molto importante uscire dai pregiudizi, recuperare quote crescenti di pace, di serenità, anche di tolleranza, poiché una cosa è certa: con la pace abbiamo tutti da guadagnarci, con la guerra invece solo da perderci.

Cosa devo fare dottore?

Il verbo FARE come in questo caso, è proprio da intendere alla lettera; il fare è cosa muscolare nell’ipotesi che un’azione possa attenuare il sentire, la paura, l’angoscia, ecc. .
Per la verità non è poi una teoria totalmente da buttare, poiché in genere uno stato di ansia suggerisce di muoversi. Si cammina ansiosamente, avanti e indietro nei corridoi di un ospedale, in attesa che il nostro parente esca dalla sala operatoria.
L’ansia consiglia dunque di camminare eppure tale riflesso è un residuato propriamente animale in quanto loro non perdono tempo a pensare. Se avvertono un pericolo, ti saltano addosso o scappano, non ospitano l’ansia in maniera visibilmente umana; ma poi naturalmente, con le debite eccezioni dovute agli animali che sono cresciuti con noi e che abbiamo contagiato, per così dire, di pensiero. Per questo se a quel così comune: “Lei cosa mi consiglia di fare dottore?” rispondessi: – “Niente, c’è da pensare, non c’è da fare”, risulterebbe certamente una risposta secca e sottilmente sgarbata. Diversamente, credo potrei dire: “Mah, intanto lei cosa avrebbe in mente di fare?”, in modo da suggerire che il paziente si trova a rischio di usare il corpo muscolare per mettere a tacere il cervello, dunque il pensiero, e che tale operazione non è in grado di mantenere quello che promette: Alla fine la persona si trova sempre con un massiccio e cupo peso quale è l’angoscia, e i pesi si sollevano usando i muscoli, insomma.
Se vogliamo, al limite estremo della vita dei popoli è la guerra, questo fare che prende il posto del pensare. Franco Fornari (senz’altro tra gli psicoanalisti più noti per gli addetti ai lavori), sosteneva che la guerra fosse l’elaborazione paranoica del lutto, e cioè la trasformazione del dolore, – perché lutto vuol dire pianto – in angoscia e subito dopo la proiezione dell’angoscia sul nemico. In breve: “Io sono immortale, metto dentro di te la mia morte, per questo ti sparo”. Naturalmente, dall’altra parte del fronte gli altri la pensano in maniera simmetrica, di conseguenza pure loro fanno fuoco. La guerra è terribile, ma purtroppo tanto seducente poiché è la cosa più facile da fare. Il pensare invece, è più difficile, però è creativo.
La guerra è anche guerra al pensiero, da cui il fare: – “Cosa devo fare dottore, mi dica lei cosa devo fare?! Cosa sono tutte queste chiacchere, no io voglio sapere cosa devo fare!! Devo o non devo andare lì, fare colà, ecc.?”
È bene sapere, come in questa circostanza, che la risposta a una domanda sbagliata trascina con sé l’errore della domanda; dunque la risposta più vera, ma che non può essere quella lì immediata, è: “Sa, se lei guarda bene, perché vuole camminare? Non si è reso conto che c’è una “frattura”? Lei ora non sa camminare e perciò non può andare da nessuna parte, deve stare fermo qui. Parliamone insieme, ecc.” Poiché quel fare è veramente un fare per non pensare. A guidarne le sue gesta c’è l’illusione che “Se non penso, non sento più la mia angoscia, non sento più l’ansia, che mi manca il fiato e che sto per morire…se non penso”. In realtà non è una buona strada.
Come mi hanno insegnato, il pensiero solleva i pesi, non il non pensare, né tanto meno il fare. Ma poi è nel linguaggio comune dire: – “Ho pensieri pesanti in giro per la testa”.
Spesso mi è stato fatto notare da un maestro particolarmente innamorato dell’etimologia quanto essa sappia molte cose. Riporto questa tra le altre. La parola pensiero deriva dal latino pend-siero; la d è caduta, ma quel pend è parente del pendolo il quale è un pesetto attaccato a un filo: pend è una variante addolcita di pond, ma pondpondus, ponderis è il pensiero, da cui il nostro ponderare, soppesare, che poi è il gesto della bilancia. Il pensiero degno del nome è quindi un sollevamento pesi! Ma per sollevarli i pesi, non dobbiamo scappare via. Ben inteso, certo che possiamo farlo, però in fondo il paziente in crisi di panico che corre al pronto soccorso, dopo essersi sottoposto ad una serie di accertamenti e ricevuto come risposta: “Ma stia tranquillo, il suo cuore è sano come un pesce”, ecc.  esce tutto sollevato con anche la fantasia d’aver vinto la morte, lo sa benissimo poi che fra una settimana sarà da punto e a capo, perché il peso che non vuoi soppesare non è che se ne va, lui ti aspetta.
In questo senso la nobiltà del pensiero consiste proprio nel dematerializzare il mondo. Per metafora, la Realtà è paragonabile a un blocco di roccia, ed il pensiero è lo scalpello dello scultore. Alla fine dell’operazione non c’è più il blocco di marmo, c’è la Pietà o il David, celebri sculture di Michelangelo, che pur sono di marmo, tuttavia non vediamo più questo, bensì il sogno dell’artista creativo che ci presenta questa scena.
Il pensiero è uno scultore ed è di qui la metafora freudiana che la psicoanalisi procede per levare, cioè porta via pensiero inutile perché ne venga fuori la “statua” che era già dentro alla roccia, proiettata in essa dall’immaginazione creativa del nostro scultore.
E così il paziente che domanda: “dove devo andare domani?”, “cosa devo fare?”, “vado di qua o vado di là?”; quando sento che la cosa potrebbe essere raccolta gli dico: – “Lei si sta chiedendo dove andare, ma penso che in realtà si stia chiedendo cosa pensare. Forse potremmo vedere insieme cosa pensare…”.

 

I sogni sono come farfalle

I sogni sono un po’ furbetti, nel senso che scappano facilmente. È come se ci dicessero:      – “Amico mio, se mi vuoi beccare lungo e in largo in questo film che io ti ho proiettato dentro al sonno, beh devi fare la tua brava fatica”. Questa fatica si chiama associazioni libere, che poi “libere” con un po’ di virgolette, si capisce.
I sogni sono come bambini i quali non amano due cose: la luce del giorno, l’abbaglio, come non amano il nero della notte. Preferiscono il crepuscolo, per così dire; un po’ come quando le cose, più che vederle s’intravedono, si alludono.
In questo senso assimilo i sogni alle farfalle. Non esiste un com-prenderli definitivo né tanto meno univoco, puoi solo accostarti a loro con garbo, lasciando la mano ben aperta, affinché possano offrirti il meglio di loro. Se ci pensiamo bene in fondo, la Verità si armonizza molto bene con la libertà.
E poi i sogni non amano la Scienza. La scienza dei sogni, l’ormai nota interpretazione dei sogni, ai sogni stessi non piace; anzi, la temono. La temono quando può accadere che, da Freud in poi, ci sia qualcuno che inchioda il sogno: – “Tu devi voler dire questo, più questo, più questo!”. Mentre il sogno sì, vuole dire qualche cosa a volte di molto denso, molto preciso, ma vuole anche essere lasciato libero di dire un sacco di altre cose.
Il mondo ad occhi aperti, il cosiddetto mondo interno è il luogo dei sogni. La memoria è dunque anch’essa con il diritto di catturare, ricordare anche il sogno come i fatti, eppure la memoria è più amica della ricerca storico scientifica; vuole i documenti e quindi ci serve più, appunto, da svegli.
E così i sogni non amano neppure la memoria in quanto troppo logica, troppo determinata (in quel giorno, in quell’ora, quelle persone, quel fatto, ecc.), quando invece i sogni sono un po’ tra le nuvole.
Quando questo o quello dei miei pazienti mi dice: – “Dottore ho fatto un sogno stanotte, ma non riesco granché a ricordare”, rispondo spesso e volentieri: – “Mah, intanto c’è una cosa che è difficile da dimenticare, ossia se il sogno era bello, o brutto o né l’uno né l’altro. Questo lo si ricorda. In secondo luogo, siccome il sogno è un’invenzione della fantasia, se lei non ricorda che cosa ha sognato, perché non mi dice in tutta libertà cosa potrebbe aver sognato?” In altri termini, sono autorizzato a suggerire lui di inventarli i sogni che non ricorda, poiché sono frutto di un’invenzione, e non un arbitrio.
Ecco qual è il vantaggio sugli storici, di chi fa come me questo mestiere: loro cercano i documenti della verità storica, noi invece cerchiamo la verità psicologica.

 

 

 

L’amore spensierato

Mi prendo qualche riga per una sottolineatura.

L’amore NON PUO’ essere spensierato; l’amore è pensoso, come sentimento intendo.
La spensieratezza ci sta anche nella vita (guai se mancasse!), ma attiene a una giocosità di superficie che non si pone il problema della coerenza.
E dunque, ci sono cose sulle quali si può giocare, si può essere spensierati appunto, ma ce n’è sono altre che non sopportano la spensieratezza perché richiedono pensiero.