Sei felice?

La felicità obbligatoria è una delle trappole più insidiose. Io suggerirei alle persone, così, di abolire una domanda molto semplice.
C’è una figlia (o figlio) fresca di matrimonio che va a trovare la zia a cui vuol bene ecc., la domanda che viene poi spesso fatta in occasioni come questa è: “Sei felice?”. Personalmente preferisco il banale “Come stai?”.
Se poi ci fosse mai qualche dubbio in merito, non chiederei mai: “Sei felice?”, quanto piuttosto “Sei capace di felicità?” cioè, “La vita e te stessa ti danno il permesso…sei libera, capace di felicità?” Non dunque se “sei felice”, ma se “sei capace di esserlo”. E se non lo sei vediamo perché.
Allo stesso modo:

– “Sei capace di correre?”

– “Oddio, sto zoppicando.”

– “Beh, vieni qui che vediamo allora come è fatta questa storta al piede che te lo impedisce”.

Non dunque “Perché corri?”, bensì “Cos’è che ti fa male?” insomma.
Senza esagerare per la verità, perché poi non vorrei risultare un po’ pignolo con questa argomentazione, era solo per precisare che la felicità non è una condizione permanente, meno che mai obbligata. Essa è misteriosa, l’importante è saperla cogliere quando l’occasione la favorisce.
Per metafora, sta più nell’appetito che nel cibo. Se c’è buon appetito diventa buonissimo anche pane e salame; viceversa se l’appetito è ghignoso (per qualsiasi ragione disturbato) non funzionano neanche le ostriche più costose.

2 pensieri riguardo “Sei felice?”

  1. La felicità sono piccoli o grandi momenti dipende a volte da noi stessi a volte dall’esterno, la famiglia il resto delle persone che ci circondano siamo tutti come tante piantine diverse che vivono vicine ma che spesso sembrano essere molto lontane tra loro, ritengo sia molto complesso il rapportarsi specie quando ci sono cambiamenti continui dentro e fuori di noi.

    1. E poi?
      Dunque Roberta, la prima impressione, ma sorridente naturalmente, è che lei, un po’ timorosa e anche forse segretamente vergognosa (per eccesso di pudore) di farsi aiutare da un analista o comunque da qualcuno addestrato a trattare con tali argomenti, che cosa fa? Ci tiene a farmi sapere che riflette sulle cose e sa che cos’è la felicità, l’infelicità, la famiglia, la vita, la vicinanza delle piantine come della loro lontananza, e appunto me lo fa sapere.
      Il fatto che non ci conosciamo, tanto meno di persona, spiega di per sé molte cose, ma sono pensieri i suoi che fanno tenerezza. Tuttavia hanno un significato che credo sfugga almeno in parte alla sua consapevolezza, che è più o meno questo: “Caro il “mio analista” ti dico subito che tu avrai pochissimo da insegnarmi – sulla vita, sull’amore, sulla felicità – perché io so già tutto”.
      Mah, ripeto, la trovo una scrittura anche piacevole la sua, non dice mica una sciocchezza, ma la questione è che uso ne fa?
      Dopo aver ricevuto questo suo secondo scritto la cosa che mi viene in mente è: “Perché (magari che ne so, in attesa di potermi incontrare di persona?) ci tiene a farmi sapere i suoi pensieri sulla felicità o sui dolori della vita? Non lo so se sia spaventata, però un eccesso di pudore per non dire di vergogna forse quello c’è, sì.
      E allora qual è l’antidoto della vergogna? È l’onore; sì l’opposto della vergogna è l’orgoglio. E questa sua frase sembra per farmi sapere che lei è acculturata, che conosce le cose, che cos’è la gioia, che cos’è il dolore, ecc.
      Ora, tenuto conto che ancora non la conosco (e neppure credo che uno scambio di lettere possa rimediare da solo a questo dato di fatto), questo è un po’ il senso che attribuirei alla sua missiva elettronica.
      La ringrazio comunque per avermi, in qualche modo, pensato come suo possibile interlocutore.
      E così la saluto.
      Fabrizio Bianchini

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