La psicoanalisi e la sorpresa dell’incontro umano

Fare psicoanalisi è stata – ed è ancora – una rivoluzione silenziosa nel modo umano di pensare e parlare. Una svolta che ha trasformato la sofferenza in racconto, e il racconto in possibilità di cura.
Ogni giorno, mi sorprende questo piccolo miracolo: la parola del paziente che cerca un senso, e quella dell’analista che prova a restituirglielo. È un incontro che non smette mai di stupirmi. Non provo mai la sensazione del “già sentito”. Non mi ritrovo a pensare “ecco, un’altra storia simile alle mille già ascoltate”. No. Ogni volta che sento suonare il campanello, nasce in me una domanda autentica: “Chissà cosa mi porterà oggi questa persona”.

Questa capacità di lasciarsi sorprendere è un antidoto contro la presunzione di sapere tutto. Chi crede di conoscere già tutto non si sorprende più di niente – e smette di ascoltare davvero. Ma ogni essere umano ha diritto al suo mistero. Ognuno di noi somiglia agli altri, sì, ma è identico solo a se stesso. E questo fa tutta la differenza.

L’individuo, in quanto unico e irripetibile, non può essere oggetto di “scienza” nel senso stretto del termine. Possiamo conoscerlo, farne esperienza, ma non inquadrarlo in leggi universali come accade per i fenomeni scientifici. La scienza si fonda sulla ripetizione, sulla possibilità di prevedere. Per esempio, in medicina si osservano sintomi, si riconoscono schemi, si applicano protocolli. Ma non ci sarà mai una “Mariologia” o una “Lauralogia”. Esistono Mario, Laura – con la loro storia, il loro modo di sentire, le loro paure.

Ecco perché chi fa il nostro mestiere – psicoanalista, terapeuta, medico – deve camminare sempre con due gambe: una scientifica, una clinica. La prima permette di riconoscere i disturbi, di orientarsi nel dolore che si ripete in forme note. Un’ossessione si può descrivere: chi si lava le mani dieci volte per sentirsi sicuro, rientra in un quadro ben conosciuto. Ma quando quell’ossessione appartiene al signor Mario Rossi, la scienza da sola non basta più. Serve l’altra gamba: quella clinica, che è anche arte. Significa mettersi in ascolto profondo, chinarsi – con rispetto – davanti all’unicità dell’altro.

Lo dico in modo laico, con pieno rispetto per ogni credo: ognuno porta con sé qualcosa che sfugge, che non si misura. E proprio in questo sta la bellezza del nostro lavoro.

Camminiamo e parliamo, insieme. Conosciamo e, nel farlo, dissodiamo terreno. Ma l’orizzonte – come sempre – si sposta un passo più in là. È una fortuna: ci tiene vivi, curiosi. E la curiosità è la scintilla che accende il piacere della conoscenza. Anche quando la seduta si fa dura, quando l’angoscia riempie la stanza, se resta viva questa apertura al mistero, la fatica si fa più leggera. E anche il dolore trova un suo spazio per essere pensato.

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