IL POSTO GIUSTO 

All’inizio, l’idea di mettersi a pensare a se stessi con un’altra persona può fare paura. È una cosa nuova, spesso mai sperimentata prima. Eppure, se il tempo viene rispettato, se lo spazio è quello giusto, succede qualcosa. La paura comincia a sciogliersi. Si avverte una forma di calore – un’offerta gentile di accoglienza, ascolto, affetto. A quel punto, per chi lo desidera, l’analista può diventare la persona a cui raccontare le proprie preoccupazioni. Non per ottenere soluzioni, ma per iniziare a capire. E capirsi. Spesso, però, prima che questo accada, si resta a lungo davanti a una porta chiusa. Una porta interiore, dietro cui si muovono emozioni confuse, sensazioni affollate, pensieri come voci che parlano tutte insieme. In quei momenti, è evidente: forzare quella porta non servirebbe a nulla. Potrebbe solo spaventare, rendere tutto più fragile.

Opera di Mojmir Jezek

Allora si attende, si accompagna, a volte si segue in punta di piedi chi cerca un rifugio per nascondersi.
E quando finalmente si trova un punto tranquillo in cui fermarsi, lì iniziano i racconti più veri. Storie spesso piene di dolore, ma anche di resistenza. Molte di queste ruotano attorno a un senso profondo di invisibilità. “Non mi vede nessuno”, mi dicono. “Neanche al lavoro, neanche in famiglia.” Così, provano a farsi notare in modi estremi: chiudendosi in se stessi o mettendo in scena gesti troppo vistosi per essere ignorati.
Ma non funziona. La persona resta invisibile, e il gesto – giudicato, punito – non viene mai davvero ascoltato. Come se il comportamento fosse separato da chi lo compie. In quei momenti, mi capita di pensare a un cane randagio: in cerca, affamato, ma diffidente. E comprensibilmente stanco.
Col tempo, questi vissuti diventano segreti. Custoditi gelosamente, perché nessuno li ha mai voluti davvero conoscere. E allora divento forse la prima persona a “vederli”. A restare. A fare spazio.
Intorno, il mondo sembra sempre di fretta, con la testa altrove. “C’è sempre qualcosa di più importante di me”, mi dicono. E io capisco che quel sentirsi trascurati, non visti, non ascoltati – non abbracciati – fa molto più male di quanto si voglia ammettere.
Alcuni parlano di cibo, o meglio, del rapporto complicato con l’alimentazione. E si scopre che in casa, fin da piccoli, si diceva che “con la pancia piena si ragiona meglio”. Ma se nessuno ha voglia di ascoltare le tue ragioni, forse il corpo decide di digiunare, per protesta o per silenzio.
Con questi ospiti invisibili che abitano il cuore e la mente, provo a dialogare. A volte serve solo il tempo di lasciar suonare il telefono finché qualcuno, dall’altra parte, decide di rispondere. Altre volte basta un sussurro in più, e da lì comincia a emergere ciò che prima era nascosto.
Quando quelle parole nuove finalmente arrivano, ci prendiamo il tempo per guardarle. Le mettiamo al centro. Le lasciamo parlarci. Perché le parole, se ascoltate davvero, sanno vedere più di quanto sappiamo fare noi stessi. Sanno prendersi cura.
E quando ciò accade, le lacrime, spesso, arrivano. Silenziose, come pioggia leggera. O fragorose, a inondare una seduta che fino a quel momento era rimasta arida. Ma dopo la pioggia, tutto si vede meglio. I contorni ritornano, le cose diventano più nitide. E chi si era nascosto si stringe forte a quel momento, come a qualcosa di prezioso.
Ora che non è più invisibile, si può iniziare a curare la ferita che aveva reso necessario scomparire.
Come ogni volta, cerco di raccontare ciò che comprendo. E la parte più viva di questo mio lavoro è proprio questa: ogni volta che sento suonare il campanello, non sapere mai cosa sarà.

I tic, i piccoli gesti del nostro quotidiano

«Posso fare un’ipotesi? Che i suoi tic – quei gesti che ogni giorno si trova a sopportare – siano in fondo un po’ magici.»

Così rispondo, talvolta, in seduta. Non per alleggerire, ma per restituire un senso a qualcosa che, spesso, pesa.

I tic sono gesti apotropaici – parola che deriva dal greco apotrépein, cioè “allontanare”. Sono riti silenziosi, piccole scaramanzie quotidiane. Gesti che ci illudono di poter tenere lontano il male. “Se faccio questo movimento, forse l’esame andrà bene.” “Se compio quel gesto, evito la febbre.” “Magari lei mi dirà di sì.”

È come pagare una tassa invisibile per ottenere qualcosa di desiderato. E il prezzo, appunto, è quel gesto. È una forma di magia, anche se non la chiamiamo così.

Ma in fondo, chi non pratica un po’ di magia nella vita di tutti i giorni?

Quando ci diciamo “buongiorno”, “buonasera”, “arrivederci”, sappiamo bene che quelle parole non cambieranno il corso degli eventi. Eppure non riusciamo a farne a meno. Per educazione, certo. Ma anche perché ci aggrappiamo – magari inconsciamente – alla speranza che quel piccolo rito porti bene.

C’era una commedia di Eduardo De Filippo che si intitolava Non è vero… ma ci credo. Ecco: i tic funzionano un po’ allo stesso modo. Sono riti, ma privati. Nessuno risponde a un tic con un altro tic. Si accettano così come sono, anche quando faticano a passare inosservati.

E sono tenaci, come tutte le forme dell’ossessione. Chi li vive lo sa: non si ignorano facilmente. Ma più ancora della loro funzione “magica”, quello che spesso mi colpisce è il senso di vergogna che li accompagna. Perché sì, i tic si notano. E chi li ha, se ne accorge. E se ne vergogna. E – paradossalmente – più se ne vergogna, più il tic si fa insistente.

In quei momenti, mi capita di chiedere: “Ha notato se ci sono situazioni più cariche d’ansia che aumentano i tic, rispetto ad altre che, invece, ci lasciano in pace?”

Uso apposta quel noi, quel ci. Perché nessuno è davvero escluso da queste dinamiche. I tic sono umani. Non rimandano a un difetto di fabbricazione. Anche la depressione, se ci pensiamo, può essere vista come un tic: non fisico, ma psichico. Un movimento interiore ripetuto, che non riesce a smettere.

Allora forse è il caso di dirlo chiaramente: non siamo sani perché siamo perfetti. Siamo sani quando le nostre risorse riescono – almeno ogni tanto – a essere più forti delle nostre fragilità.

L’inconscio, di cui i tic sono una manifestazione, non è un mostro. È parte di noi. Anche se a volte ospita mostruosità, resta umanissimo.

E riconoscerlo, senza paura, è già un modo per farci pace.