Tra le tante cose che meriterebbero di essere salvate, custodite con cura, io metto anche questa piccola nota a piè pagina. La firma è quella di Sigmund Freud. Il tono è semplice, quasi quotidiano. Il contenuto, prezioso.
“Il chiarimento sull’origine dell’angoscia dei bambini lo devo a un maschietto di tre anni che una volta sentii dire alla zia in una camera al buio: «Zia, parla con me; ho paura del buio.» La zia allora gli rispose: «Ma a che serve? Così non mi vedi lo stesso.» «Non fa nulla – ribatté il bambino – se qualcuno parla, c’è la luce.»”
(S. Freud, OSF 4, Bollati Boringhieri, p. 529)
È una riflessione semplice, quasi disarmante nella sua chiarezza. Il bambino non aveva davvero paura del buio. Quello che temeva era l’assenza. Il silenzio. Il non sentire. E allora, bastava una voce a riportare la luce.
Non era la luce elettrica che cercava, ma quella che nasce dalla presenza dell’altro. È una delle intuizioni più profonde sulla natura dell’angoscia: non temiamo solo l’oscurità, ma ciò che essa rappresenta. La solitudine. Il vuoto. Il sentirsi non accompagnati.
Da anni, anche nel mio lavoro, continuo a esplorare questa possibilità: usare la parola non tanto per spiegare, ma per illuminare. Parole che, quando sono giuste, hanno la forza di far luce dentro la realtà delle persone che incontro. E non per risolvere, ma per accompagnare.
È un esercizio delicato. Non sempre facile. Ma, quando funziona, ha in sé qualcosa di straordinario. Perché non serve molto: a volte basta una frase detta con presenza, una voce che risponde, una parola che accompagna…
Come quel bambino, anche noi – adulti, pazienti, terapeuti – sappiamo che quando “qualcuno parla, c’è la luce”.