Ogni paura, qualunque volto assuma – fisica, emotiva, reale o immaginata – porta con sé un nucleo profondo, antico. Più in là del dolore e oltre la minaccia, il vero timore è quello di essere lasciati soli.
L’abbandono è la radice che accomuna molte paure. E forse è per questo che, davanti a chi ha paura, la risposta più umana, più immediata, è anche la più essenziale: “Sono qui.”
È quello che una madre, in modo del tutto naturale, dice al proprio neonato che si è svegliato piangendo. Si avvicina, lo prende in braccio, e prima ancora che il gesto tocchi, arriva la voce: “Sono qui, piccolo mio.”
Se fossi una madre alle prime armi, mi chiederei con che tono, con quali parole, parlerei al mio bambino. E mi piace pensare che ogni madre – e anche molti padri – parlino al loro neonato come se già capisse. Come se in quella voce ci fosse una promessa: “Un giorno mi risponderai. Intanto, ti do fiducia. Ti do parola.”
C’è una forma di saggezza, in questo dialogo che inizia nel silenzio. È una dichiarazione d’amore in anticipo: “Tu vali, anche prima di sapere parlare. Io ci sono, anche prima che tu possa chiedermelo.”
Questo pensiero mi accompagna spesso anche nel mio lavoro. In un giorno qualsiasi, durante una seduta tesa, una paziente mi ha detto con voce sottile: “Ho paura, dottore…”
E io non ho risposto con spiegazioni, tecniche o teorie. Ho detto solo: “Sono qui.”
Perché ci sono momenti in cui ogni parola in più rischia di essere troppo.
E ogni parola in meno, troppo poco.
E allora si inizia da lì. Da una presenza.