I tic, i piccoli gesti del nostro quotidiano

«Posso fare un’ipotesi? Che i suoi tic – quei gesti che ogni giorno si trova a sopportare – siano in fondo un po’ magici.»

Così rispondo, talvolta, in seduta. Non per alleggerire, ma per restituire un senso a qualcosa che, spesso, pesa.

I tic sono gesti apotropaici – parola che deriva dal greco apotrépein, cioè “allontanare”. Sono riti silenziosi, piccole scaramanzie quotidiane. Gesti che ci illudono di poter tenere lontano il male. “Se faccio questo movimento, forse l’esame andrà bene.” “Se compio quel gesto, evito la febbre.” “Magari lei mi dirà di sì.”

È come pagare una tassa invisibile per ottenere qualcosa di desiderato. E il prezzo, appunto, è quel gesto. È una forma di magia, anche se non la chiamiamo così.

Ma in fondo, chi non pratica un po’ di magia nella vita di tutti i giorni?

Quando ci diciamo “buongiorno”, “buonasera”, “arrivederci”, sappiamo bene che quelle parole non cambieranno il corso degli eventi. Eppure non riusciamo a farne a meno. Per educazione, certo. Ma anche perché ci aggrappiamo – magari inconsciamente – alla speranza che quel piccolo rito porti bene.

C’era una commedia di Eduardo De Filippo che si intitolava Non è vero… ma ci credo. Ecco: i tic funzionano un po’ allo stesso modo. Sono riti, ma privati. Nessuno risponde a un tic con un altro tic. Si accettano così come sono, anche quando faticano a passare inosservati.

E sono tenaci, come tutte le forme dell’ossessione. Chi li vive lo sa: non si ignorano facilmente. Ma più ancora della loro funzione “magica”, quello che spesso mi colpisce è il senso di vergogna che li accompagna. Perché sì, i tic si notano. E chi li ha, se ne accorge. E se ne vergogna. E – paradossalmente – più se ne vergogna, più il tic si fa insistente.

In quei momenti, mi capita di chiedere: “Ha notato se ci sono situazioni più cariche d’ansia che aumentano i tic, rispetto ad altre che, invece, ci lasciano in pace?”

Uso apposta quel noi, quel ci. Perché nessuno è davvero escluso da queste dinamiche. I tic sono umani. Non rimandano a un difetto di fabbricazione. Anche la depressione, se ci pensiamo, può essere vista come un tic: non fisico, ma psichico. Un movimento interiore ripetuto, che non riesce a smettere.

Allora forse è il caso di dirlo chiaramente: non siamo sani perché siamo perfetti. Siamo sani quando le nostre risorse riescono – almeno ogni tanto – a essere più forti delle nostre fragilità.

L’inconscio, di cui i tic sono una manifestazione, non è un mostro. È parte di noi. Anche se a volte ospita mostruosità, resta umanissimo.

E riconoscerlo, senza paura, è già un modo per farci pace.