– “Posso fare l’ipotesi che i tic, i gesti che lei quotidianamente deve sopportare, sono magici”, rispondo io.
Tutti i tic sono gesti apotropaici (l’aggettivo deriva dal greco apotrépein = “allontanare”), superstiziosi, scaramantici per dirla secondo linguaggio comune.
Ad esempio, (solo) se io faccio questo o quel gesto mi andrà bene l’esame, oppure non mi verrà la febbre, o la ragazza mi dirà di sì, ecc.
Sono per così dire, delle tasse pagate per procurarsi il diritto di qualche cosa di desiderabile che non è gratuito, pertanto lo devo pagare. Ed è una magia.
Oh, intendiamoci, di queste “magie” ne facciamo poi tutti quanti. Quando ci auguriamo “buongiorno”, “buonasera”, “arrivederci”, sappiamo molto bene che il nostro giorno futuro, la sera, o il prossimo appuntamento non sarà in relazione con la parola che ci scambiamo durante il saluto, tuttavia non oseremmo rinunciarvi, perché secondo il comune costume, insomma c’è poco da fare, è maleducazione non rispondere simmetricamente al “buongiorno”, “buonasera”, ecc.
Comunque sia, cosa c’è dietro? Eh, un pizzico di magia che quella parolina abbia il potere onnipotente in qualche modo di evitare il male. Poi sappiamo che non c’è correlazione, tanto più in senso stretto.
C’era una vecchia commedia di De Filippo che intitolava così: “Non è vero…ma ci credo” perché? … porta bene; ecco i tic sono qualcosa del genere solo che sono dei rituali, ma rigorosamente personali, poiché a un tic non rispondiamo con un contro tic, lo accettiamo così com’è. Ma, sapete, i tic sono tenaci, come tenace è ogni costrutto ossessivo (a partire dal lavarsi dieci volte le mani), difficilmente mollano la presa.
È certo che chi ne ha di tic non ignora di averne, per cui tendo a non interpretare tanto il suo carattere magico, quanto piuttosto la vergogna che inducono, visto che spesso bene o male vengono vissuti con un certo grado di imbarazzo. Per quale ragione mai? Perché, forse coloro che ne subiscono pesantemente la tirannia lo avranno notato, più ci se ne vergogna più il tic si fa insistente.
Mi capita di porgere questa domanda in tali situazioni: “Per caso ha notato che ci siano delle situazioni più specificamente ansiogene che incrementano i tic che viceversa CI lasciano in pace?”
Sì alle volte, trovo conveniente usare il “NOI”, magari appunto attraverso il “CI lasciano in pace” per segnalare che NOI esseri umani per quanti siamo, possiamo andare incontro a queste cose, compreso il tic. E se allora è una cosa umana, forse forse la morsa della vergogna potrebbe anche mollare un po’ la presa. Perché se è così, potremmo anche dire: ogni essere umano ha i suoi di tic, anche se non hanno la stessa forma; anche la depressione è un tic di più lunga durata si capisce, non è un gesto fisico, ma è un gesto psichico.
Quindi, NOI non è che siamo sani quando siamo perfetti, lo siamo quando le nostre capacità, competenze, forze sono più forti delle nostre debolezze.
L’inconscio, di cui i tic ne sono una manifestazione, non è una mostruosità; anche se ospita mostruosità qua e là è squisitamente umano.
Quando finisce un amore…
Quando si lascia un uomo o una donna che ci amano ancora, mentre noi più, ecco qui spesso incontriamo un fenomeno assolutamente comunissimo: mettere colpa al posto del dolore.
Adesso, per spiegarmi recito la parte di colui/ei che avendo lasciato non è ancora capace di dire quello che adesso io dirò, ma non ho altro mezzo per spiegarmi meglio.
“Caro/a compagno/a mi dispiace tanto, ma veramente tantissimo perché quando ci siamo incontrati non è stato il dottore o il carabiniere a metterci insieme. Ci siamo messi assieme perché ci volevamo bene e volerci ci faceva stare bene. Ora però per onestà, come faccio a fare finta?! Non conviene neanche a te aver accanto una donna (o uomo) che finge, che recita un amore che non c’è più…e questo mi dispiace tantissimo.”.
Ecco il punto, questo è un dolore sano, mentre la colpa è nevrotica poiché si fonda sul potere di cambiare il cuore, costringendolo a battere per qualcuno per cui ha smesso e magari da un bel po’.
Per questo spesso in simili frangenti ci sono persone che “si sforzano” e non poco alle volte.
Il perdono presuppone la colpa. Prenderlo dall’esterno, beh, qua e là può anche servire, in ogni modo i bambini hanno diritto d’essere perdonati, cioè di ricevere comunque il regalo (per-donare vuol dire regalare) che poi è l’amore, anche dopo aver fatto cose sbagliate e da rimproverare. L’adulto, invece, se non impara a perdonarsi da solo non è efficace il perdono che gli viene dall’esterno.
Non a caso nella religione cristiana il Perdono si chiede a Dio; Lui è così grande e onnipotente che può perdonare (lavare via i peccati), ma noi come facciamo?
Siccome tu sei peccatore (colui che lascia) e io (colui che viene lasciato) non posso “perdonarti”, allora fingo di perdonarti tentando nel frattempo di rassegnarmi ai fatti. Insomma sulla scena descritta, il pericolo è che da una parte ci sia un’esibizione di sovrana capacità di perdono che è poco realistica in quanto, come dicevo poc’anzi, solo il Padre Eterno può arrivare in questo modo. Dall’altra parte c’è comunque la colpa perché perdono e colpa sono collegati: l’uno ratifica l’altro e viceversa.
Quello che sembra mancare tanto spesso invece, su queste scene di crisi amorose, ciò che fa difetto è il DOLORE SANO. Esso ci fa dire: “Mi dispiace tanto, ma tanto sai, ma non ti incolpo e non m’incolpo”, anche in virtù del riconoscimento che l’Amore è qualcosa di ampiamente misterioso.
Noi possiamo decidere di annaffiare e concimare la rosa che abbiamo nel vaso con la terra, ma non siamo noi a decidere se la rosa crescerà o fiorirà.
Insomma è in questione il riconoscimento di un discreto grado di passività di fronte al sentire. Poi, certo il coltivare quello sì è un atto di volontà, perché bisogna pur coltivare la rosa se vogliamo che continui a crescere e fiorire, ma questo è altra cosa. Noi abbiamo il potere di coltivare non quello, per così dire, di afferrare la piantina piantata nel vaso e tirarla su con le nostre mani. Non c’è costrizione.
L’amore inteso come sentimento non può essere comandato. Comandata può essere la cura, l’accudimento, la nutrizione; il Sentire non è ne merito ne demerito: è un miracolo.
Unico dovere che abbiamo semmai è quello di riconoscere la natura del sentire e rispettarla, e dentro di noi e dentro il nostro prossimo.
Arrivederci
Considerare Freud superato è possibile?
Mah… superare Freud è così possibile che ha cominciato lui stesso a farlo.
Nella stanza dove lavoro c’è una vetrinetta, all’interno della quale sono poggiati 11 volumi. Il secondo volume già supera il primo, il terzo supera il secondo e così via. Naturalmente questo “superarsi” era veloce nei primi anni, tant’è che, se guardiamo le date di quei volumi dell’Opera Omnia di Freud stampigliate sul dorso, vediamo che solo negli ultimi anni, diciamo, ha scritto di meno, o meglio ha cambiato di meno perché a quel punto insomma ne aveva già fatta abbastanza di strada.
Lui ha sistematicamente superato se stesso, salvo poi alla fine dire: “Andate avanti voi”.
Perciò superare Freud è possibile, anzi auspicabile. Ma l’elemento insuperabile che dura attraverso i tempi e anche a certi analfabeti che non hanno mai letto un gran che riguardo a lui… critiche come queste: “Freud è superato, figuriamoci adesso.. gli psicoanalisti poi che ci mettono degli anni a curare le persone” si basano spesso su conoscenze limitate.
Anche Galileo ha superato la visione tolemaica. Il firmamento, si chiama ancora così no, perché sta fermo. Copernico comincia a matematizzare, a vedere le cose in anticipo su quello che si può vedere con gli occhi; Galileo servendosi del telescopio scopre una cosa incredibile, altroché “firmamento”! Intorno al pianeta Giove ci sono dei satellitini che gli fanno il girotondo intorno. Questa scoperta che risale al 1610 fu di fondamentale importanza per l’imporsi della teoria copernicana del moto planetario. Lo ricordiamo, secondo la cosmologia aristotelica vi era un unico centro del moto (la Terra), attorno al quale ruotavano tutti corpi celesti. Il fatto che anche Giove possedesse dei satelliti, cioè che fosse anch’esso un centro del moto, se non era una conferma della teoria copernicana, confutava tuttavia quella tolemaica.
Anche adesso se noi facessimo un referendum – adesso c’è la mania dei referendum no? – con questa domanda al mondo intero: “ Tu pensi che la Terra sia al centro dell’universo e il cielo le ruota intorno, o viceversa, pensi che la Terra sia una trottola che gira intorno a sua volta al sole, che poi ecc. …?”, credo si scoprirebbe che ancora oggi una buona parte del mondo non è galileiana quanto ancora tolemaica. Allo stesso modo, ci sono degli studiosi, studenti, psichiatri che possono anche leggere ma non si danno la briga di entrare nella struttura, nella filosofia del metodo freudiano e così tirano fuori dichiarazioni del tipo: “Il complesso Edipico sì…allora come facciamo con le coppie omosessuali?”
Mah, le coppie omosessuali – benedette anche loro purché sappiano amarsi – intanto si legano comunque due personalità troppo tra loro simili, reciprocamente identiche come identica la loro dotazione genitale anatomica. Dunque, perché si costituisca una coppia degna del nome omosessuale occorre di là dalla identicità anatomica che ci sia una differenziazione delle funzioni.
A questo punto, altra punzecchiatina: “Ma come fanno a educare un bambino se sono due donne o se sono due uomini, omosessuali maschi?” Questa è una domanda assolutamente ingenua in quanto le coppie omosessuali hanno comunque una differenziazione interiore psicologica che è quella a contare.
Non ci si innamora dell’identico, ci s’innamora del complementare. Anche nella coppia omosessuale ognuno dei due termini, che si tratti di due donne o di due uomini, possono garantirsi reciprocamente: “Amore mio ti do quello che a te manca, tu mi dai quello che manca a me”.
Quanto al tirar su dei bambini – a parte il fatto che non è detto che gli orfani di madre o di padre che crescono con un genitore unico chiamato a svolgere entrambe le funzioni, siano esposti a rischi per questa ragione – nella coppia omosessuale uno dei due ha prevalenti inclinazioni maternali: tenerezza, dolcezza, consolazione, comprensione ecc., e l’altro/a ha prevalenti connotazioni paternali.
In che cosa sta la differenza delle specializzazioni? La mamma è mammella e dunque tenerezza, dolcezza, nutrimento, calore, ecc.; il papà dunque cosa fa se è dello stesso sesso? Beh, la funzione paterna in una coppia omosessuale femminile viene svolta dall’altra persona che ha competenze di forza, coraggio, e sicurezza.
La mamma ripeto è la mammella, e la funzione paterna invece è quella che indipendentemente dal sesso di chi la esercita è fatta così: “Oh, guardatelo bene questo bambino/a, è il mio bambino/a; chi oserà torcergli anche solo un capello avrà a che vedersela con me”. E questa forza protettiva capace di opporsi ai pericoli del mondo grande non è una caratteristica sessuale o esclusivamente sessuale. Sì, di solito è così, ma la funzione paterna può essere svolta anche da una madre, così come la funzione materna può essere svolta anche da un padre.
Sono delle baggianate queste che vengono proclamate in giro sul superamento di Freud e che questi era adatto alla Vienna del primo ‘900, e basta. Sciocchezze!
Può anche essere che una coppia omosessuale abbia qualche difficoltà in più, sì è possibile, ma non è che le coppie eterosessuali possano vantare poi migliori garanzie di capacità parentale. Ne vedo tanti di genitori che non hanno svolto bene la loro funzione.
C’è un esempio drammatico del nostro tempo, si riferisce al FEMMINICIDIO, a proposito se il complesso di Edipo serva o non serva a spiegare delle cose, ecc. .
Intanto osserviamo una cosa non trascurabile, che nel nostro Paese, mica in Talebania, ogni tre giorni c’è (anzi ultimamente anche più di frequente) un maschietto che ammazza la sua femminuccia che gli ha detto: “Guarda, basta così, io ti voglio lasciare”. Uno ogni tre giorni!
Quante sono simmetricamente le femminucce che in un anno, in questo stesso Paese ammazzano il loro marito o compagno che si è rivolto a loro dicendo: “Ti lascio, non ti amo più”, quante sono? C’è n’è una, quando dall’altra parte sono cento. Insomma, la femmina di homo sapiens è assassina un centesimo rispetto ai maschietti.
Quando poi questa femmina si sbarazza dell’incomodo marito con l’aiuto del nuovo amante, gallina beccami se sui giornali, ancora oggi non troviamo scritto: “Gli amanti diabolici…”, come se dall’altra parte…insomma è “diabolica” la femmina quando ammazza, il maschio no. Ciononostante, lasciando perdere questo argomento, ce n’è un altro. Cosa dice il prossimo femminicida sulla scena stessa dell’omicidio?
– “No cara, io non posso vivere senza di te perciò tu non mi puoi lasciare, assolutamente.”
Tant’è che poi anche lì su un giornalismo da quattro soldi si parla di “tragedie amorose”. Eh no, sono tragedie queste dove l’amore ha un’altra connotazione, insomma. Vero è che uno su cinque dei maschi assassini femminicidi delle loro donne, ruotata la pistola di 180gradi si spara e si fa fuori, dando testimonianza che era proprio vero che lui non sapeva vivere senza la sua compagna. Il che vuol dire che prendeva alla lettera, non come metafora… proviamo a pensare, cosa farebbe a una madre un neonato, bizzarramente capace di usare un pugnale o una pistola, che gli facesse capire: “Io ti lascio qui solo e me ne vado!”, eh, cosa farebbe quel neonato? Ucciderebbe la madre.
Quindi il femminicida è un “neonato” incapace di vivere senza la mamma, che si vendica senza saperlo, uccidendo realmente la propria “madre” ritenuta “cattiva”.
Pertanto, il complesso Edipico, cioè il fatto che ogni maschietto s’innamora e vuole “sposare” la propria mamma e non può sopportare ch’ella lo lasci; dall’altra ogni femminuccia s’innamora del proprio papà… ma qui possiamo rilevare una differenza importante tra i due bambini, il maschio e la femmina. Il primo amore, ma proprio amore, anima e corpo di tutti i maschietti è un amore eterosessuale: eh sì, la mamma! Diversamente, il primo amore per tutte le femminucce è un amore omosessuale. Questo dovrebbe bastare a togliere all’omosessualità la patente mostruosa di faccenda anti umana.
Senza Freud, dico senza Freud, le coppie omosessuali non avrebbero ancora trovato un certo grado di legittimazione (che non è comunque ancora compiuta); proprio grazie a lui l’Eros acquista una complessità storica che va oltre la biologia, per investire la psicologia.
E così non c’è il maschile ed il femminile l’uno contro l’altro armati, poiché da Freud in avanti sappiamo d’essere più maschi che femmine noi maschietti, più femmine che maschi noi femminucce.
Insomma, bisogna leggerlo Freud, bisogna studiarlo e meglio ancora praticarlo.
Che poi egli fosse anche figlio del suo tempo, voglio vedere come si fa a non esser figli del proprio tempo, solo che c’è chi riesce ad andare molto più avanti e c’è chi invece torna indietro, rispetto al proprio tempo.
In ultima battuta, si può dire che è anche in virtù di Freud e della sua talking cure (cura attraverso la parola), che le donne hanno alzato la testa e gli uomini hanno abbassato la loro violenza.
Alla prossima.
P.S. Altro piccolo omaggio alla bellezza di uno dei miei ultimi maestri.
Anthony Greninger – Soaring Mind
Certe carezze ti arrivano quando meno te l’aspetti.
Che altro dire se non, grazie.
…La vita ci chiama
Ci sono dei momenti in cui la vita ci chiama e lo fa nei modi più disparati.
Ci chiama perché possiamo prenderci cura di noi, occuparci di quel che, acquattato all’ombra della nostra presenza, ancora non sappiamo o non abbiamo compreso, o di qualcosa che non abbiamo mai espresso, né con noi stessi né, tanto meno, con gli altri. Sì, la vita ci avverte… Lo fa non più di 3-4 volte spalmate nell’arco di una intera vita. Ai più fortunati potrà capitare 7, forse 8 volte, ma non di più.
Da cosa possiamo comprendere e riconoscere questo “richiamo”? Come facciamo a capire che proprio a noi si rivolge? Quasi sempre da un disagio nascosto, da una sensazione di stanchezza, di svuotamento, o di insoddisfazione. Oppure l’occasione può venirci da una, più o meno improvvisa, importante perdita o dall’incontro con persone che ci parlano di cose a cui non avevamo magari prestato mai gran orecchio, o di argomenti che all’improvviso ci interessano, senza che mai prima avessimo sentito il bisogno di occuparcene. Talora è un amore inaspettato a richiamare la nostra attenzione, a tracciare la strada da percorrere, scombinando i nostri piani, fino anche a costringerci a fare bilanci. Magari un amore che non rientra nei canoni della persona a cui fino a quel momento ci credevamo interessati.
Insomma, la vita ci chiama per non farci essere come tutti gli altri (da non dimenticare che tutti siamo simili si, ma identici soltanto a noi stessi), per stare alla larga dai luoghi comuni, dai pensieri, dagli schemi precostituiti, da un passato quando aggrappato sul presente, che ci tolgono respiro, anni di vita gioiosa e soprattutto ci impediscono di vivere la cosa più preziosa che abbiamo: la nostra meravigliosa diversità.
Compito non comune e per nulla facile in un’epoca in cui tutti vogliono assomigliare a tutti, in cui il lifting tanto di moda, o i cosiddetti selfie (l’autoscatto) – che nel loro smodato uso sembrano essersi imposti come un vero e proprio comportamento sociale e di massa, peraltro pienamente in linea con l’era tecnologica in cui siamo immersi – ci stanno rivelando che essere autentici è diventata una cosa marginale.
La performance musicale che segue, del pianista e compositore italiano Ludovico Einaudi è dedicata a coloro che hanno pensato (anche se non sanno di preciso come) di fare qualcosa per se stessi. E’ un autore che ascolto e seguo volentieri; non saprei descrivere cosa precisamente renda sintonico il mio pensiero e sentimento in certe situazioni con la sua sensibilità musicale, eppure ho ritrovato delle congiunzioni felici in più di un’occasione, all’ascolto di certi suoi brani in grado di tradurre così bene miei pensieri in musica.
A ciascuno il proprio significato, fosse anche niente.
Buon ascolto!
La paura del buio
Nessun bambino, dico nessun bambino, ma non un neonato, intendo già con qualche annetto e anche più avanti (le bambine poi), entra volentieri in una stanza buia. Ci vuole la manona del genitore ad accompagnarlo/a. Perché?
Se il bambino fosse un adulto scienziato sarebbe tenuto alla neutralità scientifica del “se non vedo non vedo”, e invece no! Se non vedo perché è buio vedo il non, vedo il negativo. Così, il bambino non entra nella stanza buia da solo volentieri perché se non vede, vede “il lupo cattivo”.
E’ un po’ lo stesso principio per cui la “mamma assente” (in rif. alla posizione schizoparanoide di Kleiniana memoria), quindi non visibile in quel momento, la mamma buia per dir così, diventa una strega.
Il buio è l’assenza e l’assenza diventa presenza negativa. D’altra parte spesso nelle fiabe c’è un bambino che si perde nel bosco finché ad un certo momento vede un lumino, lontano lontano e finalmente indirizza i suoi passi verso quella luce che via via si fa sempre più viva e vicina. Ed è la salvezza, poiché finché c’è il buio c’è l’angoscia dell’abbandono.
Eh, siamo fatti così. Per questo – tornando a Freud, diciamo allo stato puro – l’inconscio è prevalentemente un luogo di fantasmi persecutori, perché se non lo conosco lo temo: c’è il lupo nell’inconscio.
Ho imparato a considerare l’interpretazione necessaria oltreché legittima, soltanto nei luoghi della sofferenza, in quelli bui, oscuri, paurosi; in quelli rischiarati dalla luce della felicità, di qualsiasi genere si tratti, non serve, rischia anzi sempre l’interpretazione, di risultare riduttiva.
Respiranza
– “Perché affezionarsi dottore, tanto prima o poi tutti se ne vanno.”, dice Tizio.
– “Perché allora non restare chiusi in casa, che fuori c’è senz’altro più possibilità di buscarsi un malanno?”, rispondo io.
A parte amichevoli constatazioni come questa, che non c’entrerebbero il bersaglio, possiamo constatare che il paziente che si dichiara con questo proposito, sta raccontando che ogni volta che ha perduto un oggetto d’amore non ha incontrato il dolore sano, certificato di valore dell’oggetto perduto, quanto piuttosto l’angoscia. Così non ha mica tutti i torti, tutto sommato, a immaginare una difesa che somiglia un po’ a questa: “Se nei cibi c’è qualcosa che mi fa male, smetto di mangiare.”.
Il dolore sano invece è dolore, ma è sano appunto!, pertanto è opportuno impiegarlo ogni qual volta se ne presenti la necessità. A tal proposito val la pena scomodare proprio nonno Freud quando nel suo saggio “Lutto e Melanconia”, un testo del 1917, – cito soltanto una frase – dice:
“E’ peraltro assai rimarchevole il fatto che nonostante il lutto implichi gravi scostamenti, rispetto al modo normale di atteggiarsi di fronte alla vita, non si pensa di considerarlo uno stato patologico e di affidare il soggetto, che ne è afflitto, al trattamento del medico.”
Parola di Freud.
L’angoscia va affidata alle cure, quella sì, sta bene, non il lutto.
– “Ma Dottore io non voglio che la psicoterapia mi faccia riguadagnare la speranza!, (perché – aggiungo io – mi espone alle delusioni)”.
E così mi capita alle volte di rispondere:
-“Stia a sentire, se lei non vuole che io lavori per le sue speranze, mi da il permesso di lavorare per i suoi desideri, i suoi appetiti?” Perché poi i desideri sono un altro nome dato alla speranza. Oppure, accetto comunque la sfida, ma faccio notare al paziente una cosa:
– “Caro Sig. Bianchi sa perché sono perplesso sull’accettare questa sua pretesa da me? Lei ha detto che spesso le manca il respiro, le manca il fiato? Bene, allora facciamo così, lavoreremo insieme perché lei possa imparare a respirare a pieni polmoni. Guardi che la speranza si chiama anche “respiranza”. (…Tiè!!)
Perché la sua strategia è come se mi dicesse: “Senta, lei mi deve togliere l’appetito così posso attraversare il deserto; se mi aiuta a togliere la fame, togliere la sete, non avrò più bisogno di niente e di nessuno, in questo modo potrò anche trovarmi in una condizione dove non c’è cibo, non c’è acqua e sarò in grado di resistere lo stesso”.
Non è possibile.
– “No, lei caro Sig. Bianchi sta dicendo che conta di evitare le delusioni, liberandosi dalle illusioni. Ma non è detto che le speranze siano illusioni.
Ci sono sicuramente delle speranze per loro natura illusorie; per esempio la parola “desiderio” che vuol dire “avvertire la mancanza delle stelle”, eh, certo che è un’illusione, le stelle non le possiamo mica tirar giù dal cielo allungando una mano. Loro stan bene dove sono. Così lei mi sta forse dicendo che tutte le volte, poche o tante che siano, in cui ha avuto l’occasione di perdere una persona cara o una situazione cara – anche un posto di lavoro è bene saperlo da luogo al lutto – ne ha avuto una sofferenza terribile e non c’era nessuno che se ne accorgesse, nessuno che l’aiutasse a renderla sopportabile. Perché il dolore sano sa, è importante, poichè non è possibile evitare i dolori della vita.
Il dolore si presta alla condivisione e si chiama proprio “condoglianza” quando facciamo riferimento alla partecipazione al dolore di una persona per un lutto che l’ha colpita, e la vicinanza di persone amiche, cari che ci consolano, ci fa bene, ci rende tollerabile questo dolore.
Le persone depresse si voltano dall’altra parte, non vogliono nessuna consolazione. Perciò lei mi sta dicendo che è stato troppe volte lasciato solo di fronte al dolore delle sue speranze perdute, perdute nell’oggetto. Ma la speranza è il nostro stato d’animo che è rivolto a un oggetto, che può essere una persona, un luogo, un obiettivo della vita, ecc. . L’inconveniente che le è capitato è che quando ha perduto l’oggetto, insomma quando ha perso il cibo, ha creduto conveniente di perdere anche l’appetito. Ma la speranza è un appetito.
Certo, quando si perde un oggetto delle nostre speranze c’è un dolore da attraversare, il cosiddetto lutto. Lutto è parola che viene dal latino luctus dal verbo lugere che vuol dire piangere. Per dire che c’è da piangere, ma nessuno è mai morto per un lutto, mentre si può morire per disperazione.
Quindi lavoriamo insieme affinché lei impari a piangere e possibilmente accettando la consolazione di chi le vuol bene. Certo è una ferita, è vero, e le ferite sanguinano, ma non è scritto da nessuna parte che tutte le ferite siano immediatamente mortali. Anche quel taglietto sulla punta dell’indice che potrebbe aver spaventato quel bambino la prima volta che vide il proprio sangue: “Guarda mamma!!!” Ma una mamma che non si spaventa dice: “Guarda, ti farà un po’ di bruciore, ma succede mica niente sai: adesso ci mettiamo un cerotto e vedrai che starai meglio.”
Ora, ho in mente un bambino che era così orgoglioso delle sue ferite che chiedeva d’aver un cerotto anche sul braccio sano. Quel bambino è diventato dottore.
Una promessa che non può essere mantenuta
(Un po’ di teoria delle tecniche di comunicazione tra terapeuta e paziente nell’era delle connessioni veloci).
Penso che chiunque faccia lo stesso mio mestiere, abbia come principio generale quello d’essere disponibile per i propri pazienti, ma non onnipotente e nemmeno onnisciente, nel senso che il luogo della comunicazione è massimamente la “stanza delle parole”. Anche per le comunicazioni relative al setting, vale a dire “vengo…, non vengo..”.
Perché dico questo? Perché, anche una volta sottratta la quota mia personale di antipatia per i “messaggini” (pazienza), credo che la voce viva del telefono o anche del telefonino, sia quella che veramente CI DICE. Perché il tono della voce con cui la paziente dice: “Ma io vorrei disdire ecc.”… intanto le comunicazioni di mancata seduta è bene farle in viva voce. Seconda cosa, deve essere l’eccezione, e cioè: “Perbacco è crollato il ponte sul Po, eh come faccio ad attraversarlo ed essere in tempo alla seduta?!”. Insomma, normalmente “Non verrò venerdì alla seduta” per esempio, ci può stare (poi vedremo se va pagata o non va pagata ecc.), però è una comunicazione che andrebbe fatta di persona, faccia a faccia.
Ora non credo di esagerare, ma specialmente noi giovani terapeuti tendiamo a consentire credo – sicuramente anche per stare al passo coi tempi – un uso eccessivo di questi mezzi d’informazione. In che senso eccessivo? Perché la modalità “messaggio” ci mette di fronte al fatto compiuto. Mentre al telefono si può dire: “Senta, va bene, se lei dice che non può venire venerdì, io ne prendo nota, vuol dire che ci rivedremo lunedì”, col telefonino, arriva un messaggino, poi la tentazione è quella di rispondere con un altro messaggino, e poi cosa facciamo, come coi cioccolatini? Ora, già nutro qualche dubbio sull’utilità di certo messaggiarsi al posto che sentirsi in viva voce; può avere senso (relativamente) farlo tra persone amiche o legate da affetto, con i pazienti francamente preferirei di no perché fa una promessa, sì il telefonino contiene in se per tutta l’umanità badate bene, una promessa che non si può mantenere. La promessa è: “Io per te ci sono sempre”, che non è reale, non è realistico, tanto meno vero.
Ho saputo da fonte autorevole che la curva incrementale della vendita dei telefonini a partire dagli anni’ 90 con annessi e connessi e la curva incrementale degli attacchi di panico che si presentano al pronto soccorso sono parallele. Ora questo non basta, statisticamente sappiamo che tale parallelismo non è una prova, ma solo un indizio. Di che cosa è indizio? Della diffusa difficoltà a tollerare l’attesa. La gente non vuole, non sa più aspettare, perché ha avuto la promessa della presenza costante.
Risultato: io chiamo il mio fidanzato, lui non mi risponde, “Oddio il mio amore è morto!” Oppure, lui mi chiama io non rispondo perché impegnata, e lui penserà che io sia morta. Adesso estremizzando un po’ il vissuto, ma posso assicurare che certa gente se li vive per niente bene “banali incidenti” come questo.
L’attacco di panico, mi è stato insegnato, ha un nome troppo fortunato, si chiama angoscia abbandonica, perché tutti i bambini del mondo la cosa che più temono non sono le botte (quelle fanno male, anche tanto, ma per picchiarmi ci devi essere, devi esser qui accanto a me) quanto piuttosto l’essere abbandonati. Per tutti, nessuno escluso, – compresi gli ex bambini che non sopportando l’abbandono ammazzano la femminuccia e poi si ammazzano – questo ha a che fare con un mancato allenamento ad attendere.
E così TUTTO SUBITO, o per dirla come ce la continuano a proporre sotto varie forme in pubblicità: LIFE IS NOW! Emerita e grossolana coglionata. La vita è adesso? No! La vita non è solo adesso, è troppo breve l’“adesso” per garantire significato alla vita. La vita è storia, memoria e speranza. E’ passato e futuro.
(fine del predicozzo)
Tutto questo per dire anche che se e quando un paziente dovesse incontrare il mio silenzio ad un suo messaggino, di non interpretarlo come atto di scortesia.
“Non ci riesco dottore, è troppo difficile per me pensare come lei dice.”
La cosiddetta regola fondamentale psicoanalitica fu una trovata a mio dire geniale, perché al paziente non viene proprio per niente chiesto d’essere bravo, d’impegnarsi, nel senso che generalmente s’intende. Quell’invito a lasciarsi pensare ad alta voce come viene viene vuol dire in altre parole: “Tu mi interessi, qualsiasi cosa ti venga alla mente e dalla mente alla voce”.
Questa regola d’impronta freudiana, è la forma più semplicemente critica della bravura e della pretesa.
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“Io non pretendo niente, ti invito, ti auguro, di darti la libertà qui, io comunque te la consento, anzi sono partigiano della tua libertà, caro paziente. Quindi non chiedo la bravura, perché davanti al professore, che ne so di matematica, ci è chiesta la bravura di dimostrare, eh, con precisione il teorema di Pitagora, ma qui c’è un lasciarsi dire che è altra cosa dal “Parlami bene di questo, questo e quest’altro” ”.
Un buon terapeuta, o analista insomma è un “genitore” che non chiede, è una “mamma” che non chiede al suo bambino/a di essere bravo/a. Oh sì, più avanti sì che ci vuole, perché imparare a farla nel vasino richiede appunto bravura, ma i bambini hanno diritto prima di tutto d’esser trovati belli, ossia ben voluti gratuitamente.
Spesso i pazienti hanno timore che anch’io voglia da loro la bravura, così li aiuto a riflettere sul fatto che semmai li invito, viceversa, a esser sinceri…come viene viene.
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“Ma non ci riesco dottore, è troppo difficile per me pensare come lei dice, a voce alta come viene viene.”
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“E’ vero – rispondo io – non è così facile perché non è nelle nostre abitudini, il nostro quotidiano raramente ci offre questa libertà; dobbiamo dire o fare con precisione questo, poi questo, poi quello, a partire dalla scelta di che tipo di pane chiediamo al fornaio: “Dimmi cosa vuoi?” insomma.”
Invece nella “stanza delle parole” no, non è necessario né richiesto. Piuttosto: “Lasciati sognare..”. La cosa buona e bella è proprio questa libertà dell’immaginazione, della fantasia, del sognare “ad occhi aperti”.
Vero è che terapeuti, psicoanalisti sono golosi, sì lo sono, ma non di bravura, bensì dei sogni, golosi della fantasia. E così mi capita di dire:
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“E’ vero che non è così facile, ma io le suggerisco di provarci, lei ci provi. Vedremo insieme, dove, quando, come e perché, arriva un pensiero che lei pensa sia difficile da dire, magari perché il pudore lo vieta e se ne vergogna, ecc.”.
Dunque, chiunque faccia questo mestiere deve poter garantire bellezza a qualsiasi contenuto di fantasia; anche i “sogni brutti” diventano belli se noi impariamo a considerarli come parole in lingua straniera che, sapientemente interpretate, siamo capaci di tradurre in un linguaggio comprensibile. E allora che sollievo no?! quando ci si capisce tra persone, ma anche che sollievo quando si capisce se stessi e si arriva a perdonarsi il sogno, anche quando abbia avuto un contenuto terribile, o aggressivo.
La “nostra” Storia Infinita
“Le passioni umane sono una cosa molto misteriosa e per i bambini le cose non stanno diversamente che per i grandi. Coloro che ne vengono colpiti non le sanno spiegare, e coloro che non hanno mai provato nulla di simile non le possono comprendere. Ci sono persone che mettono in gioco la loro esistenza per raggiungere la vetta di una montagna. A nessuno, neppure a se stessi, potrebbero realmente spiegare perché lo fanno. Altri si rovinano per conquistare il cuore di una persona che non ne vuole sapere di loro. E altri ancora vanno in rovina perché non sanno resistere ai piaceri della gola, o a quelli della bottiglia. Alcuni buttano tutti i loro beni nel gioco, oppure sacrificano ogni cosa per un’idea fissa, che mai potrà diventare realtà. Altri credono di poter essere felici soltanto in un luogo diverso da quello dove si trovano e così passano la vita girando il mondo. E altri ancora non trovano pace fino a quando non hanno ottenuto il potere. Insomma, ci sono tante e diverse passioni, quante e diverse sono le persone.”
In una maniera chiara e condivisibile questo estratto, da La Storia Infinita di Michael Ende, rende omaggio credo al versante non prevedibile che è in ogni essere umano.
E’ una questione proprio di ordine filosofico; la prendo da lontano.
Come sarà la prossima appendicite, la prossima frattura del femore, la prossima influenza, la prossima depressione, la prossima psicosi paranoide, lo sappiamo già noi del mestiere. Eh, come dire: “ Vista un’appendicite, viste tutte!”.
Il male, cioè, ha modalità ripetitive da persona a persona; a grandi linee certo, non in maniera meccanica, però sostanzialmente sì. Le malattie sono prevedibili nei loro meccanismi, soprattutto dopo gli ultimi due secoli di pensiero medico.
Invece nessuno può dirci come sarà il prossimo grande poeta, come sarà il prossimo immortale compositore di musica che vince il tempo, come sarà il prossimo grande pittore o scultore: questo non è prevedibile.
Perché non lo è? Perché mentre la Scienza è per tutti, come mi ha ripetuto più volte colui che mi ha insegnato cose come queste, l’Arte è per ogni singola persona, e fa riferimento a quel versante della persona umana, il versante sano, che non è ripetibile. Io non potrei dire mai: “Visto il signor Rossi, visti tutti”, o “vista la signora Bianchi viste tutte”. No! perché il signor Rossi è quello lì, unico e irripetibile, e così dicasi della signora Bianchi. Per tutto l’universo dei tempi e degli spazi non ci sarà una fotocopia di quest’uomo o di questa donna, ne di ciascuno di noi.
Questo significa che l’essere umano è titolare anche di “mistero”, e il mistero non è replicabile: il mistero è mistero, punto e basta. Non lo conosciamo, e certo l’appendicite è appendicite ed è per nostra fortuna ripetibile da persona a persona, ma come il signor Rossi e la signora Bianchi saranno abitati da quella patologia che è ripetibile, questo non ci è dato saperlo. Si potrà fare esperienza di chirurgia dell’appendicite, ma non si può fare esperienza della singola persona, unica e irripetibile.
La clinica è questo omaggio, laddove Kline dal greco vuol dire “mi inchino/ mi inclino” a rispettare questa unicità che è la persona.
Quello che noi, quando sufficientemente addestrati, possiamo prevedere è la patologia (il negativo) a grandi linee, ma insomma abbastanza pronosticabile. Non sarà invece mai prevedibile la singolarità, la misteriosità a cui ogni singolo essere umano ha pur diritto.
Si potrebbe concludendo dire che la vita in generale è qualcosa al pari di un “romanzo fantastico” e che la “storia è infinita” un po’ per tutti.
P.S. Un omaggio alla bellezza di uno dei miei maestri, dott. Gino Zucchini, da cui ho imparato molto sulla Scienza e Arte insieme, Psicoanalitica.