Sorpresa!

“Lei dichiara di sapere tutto di sé.
Cara signora, no, lei sa solo quello che ho detto su questo argomento o su quell’altro, ma ciò che dirò non lo so nemmeno io, perché anch’io mi sorprendo dei miei pensieri e, più di una volta, questo è stato davvero un piacere.
Lei non ha tutti i torti, capisco, nel temere le “sorprese”: evidentemente nella sua esperienza queste sono state prevalentemente brutte.
Suvvia, non può ignorare che esistano anche le belle sorprese! Non credo che non ne abbia mai avute, ma se è così diffidente riguardo ad esse, presumo che nella sua vita, almeno sinora, abbiano prevalso quelle “cattive”. E le cattive sorprese ci fanno un danno perché non siamo preparati ad affrontarle: ci prendono alla sprovvista, appunto.
Così, pensando che tutte le sorprese siano a contenuto negativo, ha deciso di non volerne. La comprendo, ma le conviene? Le conviene pensare di aspettarsi sempre qualcosa di brutto? Non credo. Questo divieto di felicità – perché a questo si riferisce quel suo: “Devo pur sopravvivere!”- non fa che affaticare la sua vita. La soluzione non la si trova esonerando il cuore da qualsiasi sofferenza. Semmai, il cuore umano deve essere addestrato per il bene come per il male. Si chiama “coraggio”, una virtù che, come suggerisce l’origine della parola, si lega al cuore.
Perché crede di non avere abbastanza coraggio?”

Con questo breve stralcio, tratto da uno scambio durante una seduta di un po’ di tempo fa, auguro a tutti una serena e felice Pasqua e che la capacità di sorprendersi sia con voi tutti.

IL POSTO GIUSTO 

All’inizio, l’idea di mettersi a pensare a se stessi con un’altra persona può fare paura. È una cosa nuova, spesso mai sperimentata prima. Eppure, se il tempo viene rispettato, se lo spazio è quello giusto, succede qualcosa. La paura comincia a sciogliersi. Si avverte una forma di calore – un’offerta gentile di accoglienza, ascolto, affetto. A quel punto, per chi lo desidera, l’analista può diventare la persona a cui raccontare le proprie preoccupazioni. Non per ottenere soluzioni, ma per iniziare a capire. E capirsi. Spesso, però, prima che questo accada, si resta a lungo davanti a una porta chiusa. Una porta interiore, dietro cui si muovono emozioni confuse, sensazioni affollate, pensieri come voci che parlano tutte insieme. In quei momenti, è evidente: forzare quella porta non servirebbe a nulla. Potrebbe solo spaventare, rendere tutto più fragile.

Opera di Mojmir Jezek

Allora si attende, si accompagna, a volte si segue in punta di piedi chi cerca un rifugio per nascondersi.
E quando finalmente si trova un punto tranquillo in cui fermarsi, lì iniziano i racconti più veri. Storie spesso piene di dolore, ma anche di resistenza. Molte di queste ruotano attorno a un senso profondo di invisibilità. “Non mi vede nessuno”, mi dicono. “Neanche al lavoro, neanche in famiglia.” Così, provano a farsi notare in modi estremi: chiudendosi in se stessi o mettendo in scena gesti troppo vistosi per essere ignorati.
Ma non funziona. La persona resta invisibile, e il gesto – giudicato, punito – non viene mai davvero ascoltato. Come se il comportamento fosse separato da chi lo compie. In quei momenti, mi capita di pensare a un cane randagio: in cerca, affamato, ma diffidente. E comprensibilmente stanco.
Col tempo, questi vissuti diventano segreti. Custoditi gelosamente, perché nessuno li ha mai voluti davvero conoscere. E allora divento forse la prima persona a “vederli”. A restare. A fare spazio.
Intorno, il mondo sembra sempre di fretta, con la testa altrove. “C’è sempre qualcosa di più importante di me”, mi dicono. E io capisco che quel sentirsi trascurati, non visti, non ascoltati – non abbracciati – fa molto più male di quanto si voglia ammettere.
Alcuni parlano di cibo, o meglio, del rapporto complicato con l’alimentazione. E si scopre che in casa, fin da piccoli, si diceva che “con la pancia piena si ragiona meglio”. Ma se nessuno ha voglia di ascoltare le tue ragioni, forse il corpo decide di digiunare, per protesta o per silenzio.
Con questi ospiti invisibili che abitano il cuore e la mente, provo a dialogare. A volte serve solo il tempo di lasciar suonare il telefono finché qualcuno, dall’altra parte, decide di rispondere. Altre volte basta un sussurro in più, e da lì comincia a emergere ciò che prima era nascosto.
Quando quelle parole nuove finalmente arrivano, ci prendiamo il tempo per guardarle. Le mettiamo al centro. Le lasciamo parlarci. Perché le parole, se ascoltate davvero, sanno vedere più di quanto sappiamo fare noi stessi. Sanno prendersi cura.
E quando ciò accade, le lacrime, spesso, arrivano. Silenziose, come pioggia leggera. O fragorose, a inondare una seduta che fino a quel momento era rimasta arida. Ma dopo la pioggia, tutto si vede meglio. I contorni ritornano, le cose diventano più nitide. E chi si era nascosto si stringe forte a quel momento, come a qualcosa di prezioso.
Ora che non è più invisibile, si può iniziare a curare la ferita che aveva reso necessario scomparire.
Come ogni volta, cerco di raccontare ciò che comprendo. E la parte più viva di questo mio lavoro è proprio questa: ogni volta che sento suonare il campanello, non sapere mai cosa sarà.

Musica per dirlo

https://www.youtube.com/watch?v=eJy5RKvh7_g

Ci sono brani che non si limitano a suonare: parlano. Alcuni, come quello di Luke Howard che propongo all’ascolto, sembrano riuscire a dire con le note ciò che a volte le parole non sanno esprimere. Sono come specchi delicati: riflettono emozioni, pensieri, ricordi, istanti precisi. E qualcosa in noi, ascoltandoli, si riconosce.

È per questo che ci toccano. Perché non raccontano storie generiche, ma risuonano con il nostro vissuto. Propongono scenari che somigliano al nostro paesaggio interiore. E nel farlo, ci aiutano a vedere più chiaramente ciò che sentiamo.

C’è uno scambio silenzioso che si attiva: noi troviamo senso nelle loro armonie, loro prendono forma dai nostri stati d’animo. È una corrispondenza discreta, ma potente. A volte ci basta chiudere gli occhi, lasciarci portare, e ritrovarci – anche solo per un momento – più vicini a qualcosa di autentico.

È così che certi brani diventano metafore viventi. Dicono per noi, con precisione e grazia, quello che non riuscivamo a dire da soli.

E in quell’ascolto, ci si ritrova. Un po’ più presenti. Un po’ più veri.

Un meraviglioso dono di cui avere cura

Nel prepararmi a ciò che mi attende, vi lascio una piccola foglia di pensiero, posata su un grande parco di parole e silenzi.

In questi giorni ho pensato alla nostra lingua, all’italiano, e – inevitabilmente – a Dante. Lui che l’ha portata fino alle porte del Paradiso, e non solo nel senso letterale. La Divina Commedia è un’opera che non smette di chiedere ascolto: prima ancora di essere capita, chiede di essere sentita. Come un canto, come una preghiera, come musica.

E allora, se dovessi immaginare una melodia capace di accompagnare certi passaggi formidabili del poema, la troverei in questo brano di rara bellezza: tratto dall’opera di Camille Saint-Saëns, Samson et Dalila, ispirata all’episodio biblico e interpretata con intensità da Elīna Garanča.

È una voce che accarezza, un canto che si solleva e scende come fanno i versi danteschi. Un incontro ideale tra parole alte e musica profonda.

Buon ascolto, e buon proseguimento d’estate a tutti.
Con l’augurio che ogni bellezza incontrata – letta, ascoltata, vissuta – possa lasciarvi qualcosa da portare con voi.

 

È la musica ancora una volta a parlare

Forse non tutti sanno che la musica è più antica della parola. Jeremy Montagu, ricercatore dell’Università di Oxford, lo sostiene con convinzione: gli ominidi, ben prima di articolare un linguaggio, avevano già sviluppato la capacità di emettere suoni a intonazione variabile. In altre parole, facevano musica.

E non è difficile crederlo. Perché, come ho avuto modo di sperimentare molte volte nella mia vita, la musica e la parola sono sorelle. Una conduce all’altra, e spesso ritornano l’una nell’altra, in un continuo rimando.

Parliamo con la musica nella voce. Componiamo melodie anche quando raccontiamo. Così come si leggono note su uno spartito, si leggono anche le emozioni tra le righe di un discorso. Un buon brano musicale può assomigliare a un buon libro: ci apre un mondo, ci parla con una voce. A volte silenziosa, a volte potente. Ma sempre viva.

Quando una persona racconta un sogno, un ricordo, un’esperienza, non porta solo parole. Porta una musica. C’è chi suona armonie leggere, chi una partitura spezzata, chi un ritmo affannato. Alcune narrazioni donano respiro, altre lo tolgono. Alcune avvolgono, altre feriscono. E il compito, in fondo, è ascoltare quella melodia. Capire se è in tono, dove stona, dove cerca ancora un accordo.

Mi ha sempre colpito questa affinità: parole e musica che si rincorrono, si sovrappongono, si cercano. Quando ascolto un paziente, mi capita di sentire dentro la sua voce qualcosa che somiglia a un tempo musicale: adagio, andante, allegro… a seconda dei giorni, delle emozioni, dei silenzi.

E poi c’è questo: il musicista non sa esattamente cosa la sua musica susciterà in chi ascolta. Non può. Offre una storia, ma il finale lo scrive chi la riceve. Qualcuno sentirà nostalgia, qualcuno sollievo, qualcun altro rabbia o commozione.

Anche in analisi accade qualcosa di simile. Le parole che compongo insieme al paziente – frase dopo frase – non sono solo mie. Sono il frutto di un lavoro a due mani. Ogni scambio è un tentativo di trovare un ritmo, un senso, una tonalità comune. E se c’è fiducia – nel mestiere, nell’altro, nella possibilità che qualcosa possa nascere – allora l’incontro diventa davvero creativo. Come tra artista e spettatore.

C’è così tanta musica bella al mondo. Perché non provare a comporne di buona anche con le parole?

Concludo lasciandovi un brano di Anthony Greninger: A Heavy Heart. Lo trovo perfetto per dire, ancora una volta, che è la musica – più delle spiegazioni – a parlarci davvero.

Buon ascolto.

Il senso della Storia

Nel parlare quotidiano, spesso – per abitudine o fretta – tendiamo a confondere due parole che in realtà indicano cose molto diverse: realtà e verità.

La realtà è ciò che c’è, così com’è. È materia, peso, resistenza. È come una roccia: opaca, compatta, difficile da ignorare. Ma la verità è un’altra cosa. La verità nasce quando quella realtà viene attraversata dalle parole. Quando proviamo a raccontarla, a nominarla, a darle un senso.

È la parola, infatti, che costruisce la verità. Ma deve essere una parola giusta. Non una qualsiasi. Le parole che servono a dire la verità devono essere scelte con attenzione, perché solo così riescono ad avvicinarsi davvero a ciò che vogliamo trasmettere.

Per questo, la verità – anche se nasce dentro ciascuno – ha sempre qualcosa di condivisibile. È un ponte. Un progetto di comunicazione, di incontro. Chi cerca la verità, in fondo, sta cercando anche qualcuno con cui condividerla.

La realtà nuda, grezza, senza parole capaci di interpretarla, può diventare pericolosa. È da lì che nascono i conflitti, le guerre, le incomprensioni. La verità, invece, è una costruzione paziente che tende verso la pace. Ma chiede impegno, ascolto, tempo.

Questo vale nella grande Storia – quella dei popoli, delle nazioni – ma anche nelle storie personali, quelle che ci portiamo dentro ogni giorno. Anche dentro di noi, tra pensieri in contrasto ed emozioni che faticano a trovare voce, c’è bisogno di verità per poter pacificare.

E allora la domanda è: a cosa serve la pace?
Serve alla sicurezza. Alla possibilità di sentirsi al riparo, almeno per un po’. Chi ha vissuto la guerra lo sa bene: uscire di casa senza la certezza di poter tornare, vedere partire un padre senza sapere se lo si rivedrà. Questa è la realtà della guerra. E anche le guerre interiori, per quanto silenziose, chiedono tregua.

Ma attenzione: la pace non porta necessariamente la felicità. La felicità è un’altra cosa. Non si costruisce, non si garantisce, non si programma. Arriva. A volte all’improvviso, come una brezza che ci sfiora il volto. E se dentro di noi c’è abbastanza silenzio, possiamo accorgercene. E tenerla, almeno per un po’.

La pace crea lo spazio per riconoscerla. La felicità, quando viene, ha bisogno di un terreno quieto su cui posarsi.

E questo, forse, è il vero senso della Storia: cercare parole che sappiano dare significato alla realtà, in modo da renderla condivisibile, umana, abitabile. A partire da noi stessi, fino ad arrivare all’ Altro che incrociamo lungo il cammino.