All’inizio, l’idea di mettersi a pensare a se stessi con un’altra persona può fare paura. È una cosa nuova, spesso mai sperimentata prima. Eppure, se il tempo viene rispettato, se lo spazio è quello giusto, succede qualcosa. La paura comincia a sciogliersi. Si avverte una forma di calore – un’offerta gentile di accoglienza, ascolto, affetto. A quel punto, per chi lo desidera, l’analista può diventare la persona a cui raccontare le proprie preoccupazioni. Non per ottenere soluzioni, ma per iniziare a capire. E capirsi. Spesso, però, prima che questo accada, si resta a lungo davanti a una porta chiusa. Una porta interiore, dietro cui si muovono emozioni confuse, sensazioni affollate, pensieri come voci che parlano tutte insieme. In quei momenti, è evidente: forzare quella porta non servirebbe a nulla. Potrebbe solo spaventare, rendere tutto più fragile.
Allora si attende, si accompagna, a volte si segue in punta di piedi chi cerca un rifugio per nascondersi.
E quando finalmente si trova un punto tranquillo in cui fermarsi, lì iniziano i racconti più veri. Storie spesso piene di dolore, ma anche di resistenza. Molte di queste ruotano attorno a un senso profondo di invisibilità. “Non mi vede nessuno”, mi dicono. “Neanche al lavoro, neanche in famiglia.” Così, provano a farsi notare in modi estremi: chiudendosi in se stessi o mettendo in scena gesti troppo vistosi per essere ignorati.
Ma non funziona. La persona resta invisibile, e il gesto – giudicato, punito – non viene mai davvero ascoltato. Come se il comportamento fosse separato da chi lo compie. In quei momenti, mi capita di pensare a un cane randagio: in cerca, affamato, ma diffidente. E comprensibilmente stanco.
Col tempo, questi vissuti diventano segreti. Custoditi gelosamente, perché nessuno li ha mai voluti davvero conoscere. E allora divento forse la prima persona a “vederli”. A restare. A fare spazio.
Intorno, il mondo sembra sempre di fretta, con la testa altrove. “C’è sempre qualcosa di più importante di me”, mi dicono. E io capisco che quel sentirsi trascurati, non visti, non ascoltati – non abbracciati – fa molto più male di quanto si voglia ammettere.
Alcuni parlano di cibo, o meglio, del rapporto complicato con l’alimentazione. E si scopre che in casa, fin da piccoli, si diceva che “con la pancia piena si ragiona meglio”. Ma se nessuno ha voglia di ascoltare le tue ragioni, forse il corpo decide di digiunare, per protesta o per silenzio.
Con questi ospiti invisibili che abitano il cuore e la mente, provo a dialogare. A volte serve solo il tempo di lasciar suonare il telefono finché qualcuno, dall’altra parte, decide di rispondere. Altre volte basta un sussurro in più, e da lì comincia a emergere ciò che prima era nascosto.
Quando quelle parole nuove finalmente arrivano, ci prendiamo il tempo per guardarle. Le mettiamo al centro. Le lasciamo parlarci. Perché le parole, se ascoltate davvero, sanno vedere più di quanto sappiamo fare noi stessi. Sanno prendersi cura.
E quando ciò accade, le lacrime, spesso, arrivano. Silenziose, come pioggia leggera. O fragorose, a inondare una seduta che fino a quel momento era rimasta arida. Ma dopo la pioggia, tutto si vede meglio. I contorni ritornano, le cose diventano più nitide. E chi si era nascosto si stringe forte a quel momento, come a qualcosa di prezioso.
Ora che non è più invisibile, si può iniziare a curare la ferita che aveva reso necessario scomparire.
Come ogni volta, cerco di raccontare ciò che comprendo. E la parte più viva di questo mio lavoro è proprio questa: ogni volta che sento suonare il campanello, non sapere mai cosa sarà.

