È la musica ancora una volta a parlare

Forse non tutti sanno che la musica è più antica della parola. Jeremy Montagu, ricercatore dell’Università di Oxford, lo sostiene con convinzione: gli ominidi, ben prima di articolare un linguaggio, avevano già sviluppato la capacità di emettere suoni a intonazione variabile. In altre parole, facevano musica.

E non è difficile crederlo. Perché, come ho avuto modo di sperimentare molte volte nella mia vita, la musica e la parola sono sorelle. Una conduce all’altra, e spesso ritornano l’una nell’altra, in un continuo rimando.

Parliamo con la musica nella voce. Componiamo melodie anche quando raccontiamo. Così come si leggono note su uno spartito, si leggono anche le emozioni tra le righe di un discorso. Un buon brano musicale può assomigliare a un buon libro: ci apre un mondo, ci parla con una voce. A volte silenziosa, a volte potente. Ma sempre viva.

Quando una persona racconta un sogno, un ricordo, un’esperienza, non porta solo parole. Porta una musica. C’è chi suona armonie leggere, chi una partitura spezzata, chi un ritmo affannato. Alcune narrazioni donano respiro, altre lo tolgono. Alcune avvolgono, altre feriscono. E il compito, in fondo, è ascoltare quella melodia. Capire se è in tono, dove stona, dove cerca ancora un accordo.

Mi ha sempre colpito questa affinità: parole e musica che si rincorrono, si sovrappongono, si cercano. Quando ascolto un paziente, mi capita di sentire dentro la sua voce qualcosa che somiglia a un tempo musicale: adagio, andante, allegro… a seconda dei giorni, delle emozioni, dei silenzi.

E poi c’è questo: il musicista non sa esattamente cosa la sua musica susciterà in chi ascolta. Non può. Offre una storia, ma il finale lo scrive chi la riceve. Qualcuno sentirà nostalgia, qualcuno sollievo, qualcun altro rabbia o commozione.

Anche in analisi accade qualcosa di simile. Le parole che compongo insieme al paziente – frase dopo frase – non sono solo mie. Sono il frutto di un lavoro a due mani. Ogni scambio è un tentativo di trovare un ritmo, un senso, una tonalità comune. E se c’è fiducia – nel mestiere, nell’altro, nella possibilità che qualcosa possa nascere – allora l’incontro diventa davvero creativo. Come tra artista e spettatore.

C’è così tanta musica bella al mondo. Perché non provare a comporne di buona anche con le parole?

Concludo lasciandovi un brano di Anthony Greninger: A Heavy Heart. Lo trovo perfetto per dire, ancora una volta, che è la musica – più delle spiegazioni – a parlarci davvero.

Buon ascolto.