Tra le cose da salvare ci metto la nota a piè pagina che segue, firmata Sigmund Freud, espressione di un patrimonio culturale ed esperienziale degno di tutela.
“Il chiarimento sull’origine dell’angoscia dei bambini lo devo a un maschietto di tre anni che una volta sentii dire alla zia in una camera al buio: “Zia, parla con me; ho paura del buio.” La zia allora gli rispose: “Ma a che serve? Così non mi vedi lo stesso.” “Non fa nulla – ribatté il bambino, – se qualcuno parla c’è la luce.” Egli dunque non aveva paura dell’oscurità bensì sentiva la mancanza di una persona cara, e riusciva a ripromettersi la tranquillità non appena avesse avuto la prova della presenza di essa.”
(Freud S. (1900-1905), Tre saggi sulla teoria sessuale e altri scritti, O.S.F. 4, Bollati Boringhieri, p.529)
Trovo questa riflessione d’una chiarezza e semplicità disarmanti.
Sono ormai un po’ di anni che sto esplorando questa possibilità. Mi riferisco all’uso “raffinato” della parola come mezzo per giungere al senso delle cose, dei fatti, della vita delle persone che incontro. Un esercizio né facile né scontato, ma meraviglioso.