L’inconscio quando confuso è in attesa di coscienza in grado di ripulire e rimettere ordine.
Pensavo a quelle cartoline con un bambino che regge un bastone dietro la schiena e dopo aver legato attorno a questo un sacchetto pieno di cose, va da solo verso il mondo. Tale figura fa riferimento alla favola a doppio senso dell’abbandono, ma anche “non sei tu che mi abbandoni, sono io che me ne vado”. È una rappresentazione di ambivalenza: farò in modo di negare il bisogno che sento di te.
Il bisogno tuttavia c’è e finché non diventa desiderio (a tal riguardo un mio insegnante userebbe dire: “con i desideri si gioca, con i bisogni non si scherza”) c’è di mezzo l’angoscia, la colpa, la colpa anche d’essere felici.
Finché non si smonta questo teorema, fin tanto che la felicità e viceversa anche i momenti di dolore non perdono il carattere del o tutto o niente, del sempre o mai più, ecc., rischiano anziché di essere ospitate come ospitiamo in cielo il sereno, che poi tanto arrivano le nuvole, ma poi tornerà il sereno, come è d’uso nella fisiologia del cielo… fino a quando, diciamo il “relativo” si ammala di “assoluto” allora, da una parte – restando all’interno della metafora – si pretenderebbe il cielo perfettamente e sempre sereno, dall’altro lato ci si dispera delle nuvole come se fossero sempre e soltanto destinate ad oscurare un cielo destinato a non mostrare mai più il sereno.
La realtà della vita contrariamente, ci permette di leggere queste cose come alternanze fisiologiche di capacità di gioia, ma perché no, anche capacità di dolore, di tristezza.
Quando si rompe qualcosa è lì che c’è la tentazione dell’onnipotenza al negativo: “ti voglio più vedere!”.