Il verbo FARE come in questo caso, è proprio da intendere alla lettera; il fare è cosa muscolare nell’ipotesi che un’azione possa attenuare il sentire, la paura, l’angoscia, ecc. .
Per la verità non è poi una teoria totalmente da buttare, poiché in genere uno stato di ansia suggerisce di muoversi. Si cammina ansiosamente, avanti e indietro nei corridoi di un ospedale, in attesa che il nostro parente esca dalla sala operatoria.
L’ansia consiglia dunque di camminare eppure tale riflesso è un residuato propriamente animale in quanto loro non perdono tempo a pensare. Se avvertono un pericolo, ti saltano addosso o scappano, non ospitano l’ansia in maniera visibilmente umana; ma poi naturalmente, con le debite eccezioni dovute agli animali che sono cresciuti con noi e che abbiamo contagiato, per così dire, di pensiero. Per questo se a quel così comune: “Lei cosa mi consiglia di fare dottore?” rispondessi: – “Niente, c’è da pensare, non c’è da fare”, risulterebbe certamente una risposta secca e sottilmente sgarbata. Diversamente, credo potrei dire: “Mah, intanto lei cosa avrebbe in mente di fare?”, in modo da suggerire che il paziente si trova a rischio di usare il corpo muscolare per mettere a tacere il cervello, dunque il pensiero, e che tale operazione non è in grado di mantenere quello che promette: Alla fine la persona si trova sempre con un massiccio e cupo peso quale è l’angoscia, e i pesi si sollevano usando i muscoli, insomma.
Se vogliamo, al limite estremo della vita dei popoli è la guerra, questo fare che prende il posto del pensare. Franco Fornari (senz’altro tra gli psicoanalisti più noti per gli addetti ai lavori), sosteneva che la guerra fosse l’elaborazione paranoica del lutto, e cioè la trasformazione del dolore, – perché lutto vuol dire pianto – in angoscia e subito dopo la proiezione dell’angoscia sul nemico. In breve: “Io sono immortale, metto dentro di te la mia morte, per questo ti sparo”. Naturalmente, dall’altra parte del fronte gli altri la pensano in maniera simmetrica, di conseguenza pure loro fanno fuoco. La guerra è terribile, ma purtroppo tanto seducente poiché è la cosa più facile da fare. Il pensare invece, è più difficile, però è creativo.
La guerra è anche guerra al pensiero, da cui il fare: – “Cosa devo fare dottore, mi dica lei cosa devo fare?! Cosa sono tutte queste chiacchere, no io voglio sapere cosa devo fare!! Devo o non devo andare lì, fare colà, ecc.?”
È bene sapere, come in questa circostanza, che la risposta a una domanda sbagliata trascina con sé l’errore della domanda; dunque la risposta più vera, ma che non può essere quella lì immediata, è: “Sa, se lei guarda bene, perché vuole camminare? Non si è reso conto che c’è una “frattura”? Lei ora non sa camminare e perciò non può andare da nessuna parte, deve stare fermo qui. Parliamone insieme, ecc.” Poiché quel fare è veramente un fare per non pensare. A guidarne le sue gesta c’è l’illusione che “Se non penso, non sento più la mia angoscia, non sento più l’ansia, che mi manca il fiato e che sto per morire…se non penso”. In realtà non è una buona strada.
Come mi hanno insegnato, il pensiero solleva i pesi, non il non pensare, né tanto meno il fare. Ma poi è nel linguaggio comune dire: – “Ho pensieri pesanti in giro per la testa”.
Spesso mi è stato fatto notare da un maestro particolarmente innamorato dell’etimologia quanto essa sappia molte cose. Riporto questa tra le altre. La parola pensiero deriva dal latino pend-siero; la d è caduta, ma quel pend è parente del pendolo il quale è un pesetto attaccato a un filo: pend è una variante addolcita di pond, ma pond…pondus, ponderis è il pensiero, da cui il nostro ponderare, soppesare, che poi è il gesto della bilancia. Il pensiero degno del nome è quindi un sollevamento pesi! Ma per sollevarli i pesi, non dobbiamo scappare via. Ben inteso, certo che possiamo farlo, però in fondo il paziente in crisi di panico che corre al pronto soccorso, dopo essersi sottoposto ad una serie di accertamenti e ricevuto come risposta: “Ma stia tranquillo, il suo cuore è sano come un pesce”, ecc. esce tutto sollevato con anche la fantasia d’aver vinto la morte, lo sa benissimo poi che fra una settimana sarà da punto e a capo, perché il peso che non vuoi soppesare non è che se ne va, lui ti aspetta.
In questo senso la nobiltà del pensiero consiste proprio nel dematerializzare il mondo. Per metafora, la Realtà è paragonabile a un blocco di roccia, ed il pensiero è lo scalpello dello scultore. Alla fine dell’operazione non c’è più il blocco di marmo, c’è la Pietà o il David, celebri sculture di Michelangelo, che pur sono di marmo, tuttavia non vediamo più questo, bensì il sogno dell’artista creativo che ci presenta questa scena.
Il pensiero è uno scultore ed è di qui la metafora freudiana che la psicoanalisi procede per levare, cioè porta via pensiero inutile perché ne venga fuori la “statua” che era già dentro alla roccia, proiettata in essa dall’immaginazione creativa del nostro scultore.
E così il paziente che domanda: “dove devo andare domani?”, “cosa devo fare?”, “vado di qua o vado di là?”; quando sento che la cosa potrebbe essere raccolta gli dico: – “Lei si sta chiedendo dove andare, ma penso che in realtà si stia chiedendo cosa pensare. Forse potremmo vedere insieme cosa pensare…”.