Life is now?

Cosa dite, facciamo una proposta di legge dove in tutti i ristoranti, i gestori sono autorizzati a ritirare tutti i telefonini dei commensali, e a restituirli a fine pranzo?
Come altri colleghi, sono anch’io del parere che l’incremento statistico della clinica degli attacchi di panico cosiddetti sia dovuto all’uso dei telefonini, i quali, in senso generale, disabituano all’attesa. L’attesa è una cosa preziosa, se ci riflettiamo bene scopriamo che è fatta di due sostanze; proverò a descriverle mediante esempio.
Siamo alla stazione, c’è un treno che ci riporta una persona cara, ma è in ritardo: cavoli, speriamo che arrivi!! Ed è così che l’attesa contiene la MEMORIA della persona che stiamo aspettando e magari con un bel po’ di storia dietro, ma anche la SPERANZA sintetizzabile in questa esclamazione: “Porca miseria, arriverà pure sto treno??!. Certo, non ci sono notizie di disastri; vabbè adesso sto qui ad aspettare.” Dunque, l’attesa aiuta a cogliere il significato del tempo che è fatto, appunto, di memoria e di speranza, di passato e futuro, immaginato, desiderato.
Purtroppo o per fortuna (?), con quelle dita continuamente sullo schermo del telefonino tutto diviene percezione, cioè “connessione in tempo reale”. L’espressione “tempo reale” (l’equivalente dello slogan di una campagna pubblicitaria di un po’ di anni fa, “life is now!”) anche se va per la maggiore è un errore linguistico, pressoché una bestemmia. Il tempo è IRREALE; reale è l’istante del presente in atto. Il resto del tempo non è reale, è memoria, progetto, attesa, desiderio, sogno, futuro, dunque speranza. Per questa ragione dire “tempo reale” è uno strafalcione e attenzione, perché quando s’impongono dei linguaggi concettualmente sbagliati, diciamo pur filosoficamente erronei, questi errori non sono innocenti.
L’incremento delle crisi di panico, che sarebbe meglio chiamare ANGOSCIA ABBANDONICA, dato che al giorno d’oggi se chiamo la mamma premendo un semplice tasto sul telefonino: “Ciao, eccomi! Tu dove sei?” e tac è subito lì, la prima volta che chiamo e non mi rispondono, se non sono abituato a spegnere il telefonino – in altre parole, a farne anche a meno -, mi spavento ovviamente, perché non è normale.
Quando la norma diventa il “tutto subito” è naturale che la mancata risposta mi metta il panico. Esso poi, è pari a quello di un neonato, ma che però non lo sa chiamare così. Si sveglia nel buio perché ha fame o freddo, non vede la mamma e strilla come un’aquila. La mamma-mammella gli appartiene, è roba sua in quanto è naturalmente fusionale.
Il modello dell’angoscia abbandonica è in buona sostanza questo qui. Poi, naturalmente, la mamma è di là in salotto, corre subito e lo consola con parole del tipo: “Poverino! Hai ragione tu, è cattiva la mamma, adesso però tieni” … e gli porge il capezzolo.
Il paziente – uomo o donna che sia – che dice: “Oddio oddio, mi batte forte il cuore, adesso sto per morire, mi manca l’aria, cosa mi sta succedendo??! Aiutatemi subito, per favore portatemi al pronto soccorso!!” ne ho incontrati diversi e ne incontrerò; quando sono onesti raccontano che sì, hanno fatto fretta al taxista o al fidanzato/a che li portava all’ospedale più vicino, ma com’è come non è, appena varcato il grande portone dell’ospedale con tutta quella gente che va e viene, camici bianchi frettolosi che corrono di qua e di là, il panico si attenua. Perché? Perché pensa:” Non mi abbandoneranno, mica mi lasceranno morire, sono in tanti qua!?” A seguire elettrocardiogramma, raggi X, visita, esame neurologico e infine il medico che pronuncia queste parole: “No, stia tranquillo, il suo cuore è sano come un pesce”. Questa è la controprova che si tratta di disallenamento all’attesa.
Qualche cosa del genere è sempre stata presente nel preconscio collettivo, come capita di dire comunemente a un amico dal quale ci stiamo separando dal momento che se ne va a stare per un po’ in un’altra città… Qual è una tipica espressione di saluto in circostanze come questa?
“Oh, fatti vivo, mi raccomando!!” Cosa vuol dire quel “fatti vivo”? E’ semplicissimo: “Se non ti sento posso pensare che tu sia morto”. Perciò, per avere la garanzia che tu sei vivo, “fatti vivo e io anche mi farò vivo”. Lo si dice, no?
Quello che per la coscienza può risultare una metafora per l’inconscio invece non lo è; l’inconscio non la conosce la metafora, prende tutto alla lettera. Per cui tornando all’esempio portato in precedenza, se non sento, la voce della mamma, vuol dire che è morta, o lei, se non mi sente, penserà che io sia morto.
Può benissimo diventare una droga a tutti gli effetti e perciò il telefonino quando usato come droga procura la crisi d’astinenza; e infatti le sensazioni soggettive che si provano durante una crisi di astinenza sono: “Se ho il batticuore, come faccio a non credere al batticuore, è qui, mi sta scoppiando nel petto!”
Questo è il motivo per cui parlerei di misure di igiene mentale. Poi, ce n’è sempre di bene e di male, in ogni fase della cultura, della civiltà, della tecnologia, ecc. Il nostro Paese ne ha attraversate tante, figuriamoci, tuttavia credo si debba prendere coscienza dei rischi possibili per poterli fronteggiare, senza fanatismi certamente, però, occhi aperti.

 

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